giovedì 22 dicembre 2022

Seregno

"Il Pino" suona strano, ma in Lombardia l'articolo è d'obbligo ed io subito lo adottai (mi sono sempre impegnata per adeguarmi ad usi e costumi dei paesi che mi ospitavano). Il suo nome naturalmente era Giuseppe e viveva a Seregno con la sua numerosa famiglia, anche se era scapolo. Vi era a capo, quando li conobbi, una matriarca, che, pur essendo rimasta vedova, continuava ad organizzare la vita ed il lavoro dei figli.

Questa famiglia, di cognome Canzi, aveva accolto mio padre come un figlio quando era arrivato da quelle parti perché lì c'era lavoro.

Del nostro viaggio a Seregno ricordo la puntata sino a Chiasso giusto per passare la frontiera e comprare cioccolato svizzero.

Nel corso degli anni Pino venne qualche volta a Cassine perché mio padre aveva a cuore gli amici cui evidentemente era grato per essergli stati a fianco in quel cammino di apprendistato durante il quale aveva imparato a vivere: ad affrontare le difficoltà e a cercare soluzioni senza fare troppo conto sui genitori lontani.

Purtroppo nel corso degli anni il dolore colpì  i Canzi che, a causa di un incidente sul lavoro, perdettero uno dei fratelli minori. Non andai al funerale.

L'ultima volta che passai da Seregno ero in treno: una decina di anni fa raggiungemmo Lugano facendo la tratta Genova Milano e poi Milano Ticino (TILO, Ticino Lombardia). Eravamo infatti camperisti e qualche volta svernammo in Liguria. Alla frontiera le guardie percorsero il treno avanti e indietro con scrupolo, ma non ci fu alcun ritardo.
 

lunedì 19 dicembre 2022

Messaggi dall'Aldilà

 

Ho rispolverato il libro di Sylvia Browne nei giorni precedenti il Natale 2022 pensando che avrei potuto condividerlo con L. Infatti ho saputo che ha sofferto per la morte di un giovane a causa di un incidente in moto. Poi questo libro mi é stato chiesto in prestito e sto temporeggiando, non sapendo a chi passarlo. Fatto sta che l'altra sera mi sono soffermata su un vecchio episodio che mi ha toccata profondamente. Sono trascorsi più di dieci anni dal momento in cui... stavo raccontando a Layla ciò che avevo letto sul passaggio dalla vita terrena a quella ultraterrena attraverso la morte fisica.


 

A pagina 50 avevo letto infatti che nel momento in cui giungiamo nell'Aldilà ci accolgono i nostri cari, parenti ed amici. Eravamo nella camera da letto dove Giuseppina da alcuni giorni se ne stava con gli occhi chiusi, facendo solo qualche gesto con le mani, portando alla bocca qualche cucchiaino d'acqua, senza proferire parola, senza rispondere alle domande che le rivolgevamo.

Non feci alcun cenno agli animali perchè questo particolare non mi aveva colpita durante la lettura.

Mentre Layla mi ascoltava in silenzio mia madre disse: "Io ci credo" e poi non aggiunse altro. Furono queste le sue ultime parole.

giovedì 3 marzo 2022

"Pinotu" racconta la Grande Guerra


  

 

 

 

Giuseppe Cattaneo, "Pinotu", nacque a Gavonata, frazione di Cassine, nel 1896 e vi morì nel 1987.


 

 

Una lezione di vita e di storia è il racconto di Pinotu, registrato da Roberta Roggero insieme al papà, che ringraziamo per averci fatto "rivivere" alcuni momenti del passato, tra cui la ritirata di Caporetto.

"Nel 1915 ho perso il padre, il 10 di agosto. A settembre sono andato alla visita militare. Mia madre aveva quattro bambini, tre da 9 anni in giù: due maschi e una femmina.

Il 22 novembre 1015 sono stato richiamato.

Noi lavoravamo le viti, coltivavamo grano, mais, fagioli...

Soldi non ce n'erano... Sono andato a fare la cisterna a "Roma" (nel cortile della Tenuta Monti) a trenta soldi al giorno, una lira e cinquanta...lavoravo a mano, col badile... Vivevamo "an pei 'd lu", sul bricco, da Scaparei - più o meno dove abita Gianfranco Ciccone  - ...la casa... c'era la credenza, il tavolo, le sedie... la casa aveva quattro stanze, c'era una sala, c'era un portico, la stalla... C'erano quattro camere, due sotto e due sopra: i tre maschi dormivano insieme in una stanza da letto, la bambina dormiva con i genitori.

Mangiavamo polenta e merluzzo, pane, qualche pezzetto di carne la domenica (avevamo polli e conigli), minestra con i fagioli... Fame non ne avevamo, anche se eravamo tanti... pane di farina non tutti l'avevano...

Una volta si andava al forno una volta la settimana, c'erano due forni, cuocevano il mercoledì  e il sabato (d'inverno una volta la settimana), si facevano dieci, dodici, quindici micche secondo quanti erano in famiglia...

La mamma di tua nonna Teresa andava con la cesta, era una famiglia numerosa... C'era il lievito... non c'era il lievito di birra, tenevano il "lievitato" da una volta all'altra; se si dimenticavano, se lo facevano imprestare... poi preparavano l'impasto con acqua tiepida... la farina non era setacciata come ora, c'era un po' di crusca insieme...

Non mi ricordo quando han fatto il mulino elettrico, l'hanno rimodernato che sarà cinquant'anni...

Allora facevano i "turtlei", li mettevano sulla brace con le molle, li rivoltavano -  il fuoco doveva essere forte - e poi li levavano... Dopo mezz'ora, tre quarti d'ora lo levavano, era buono piuttosto caldo, diventando freddo diventava duro...

Quando ero piccolo io, obbligo scolastico non ce n'era, ma quasi tutti li mandavano a scuola; a Cassine c'era fino alla quinta, poi han messo la sesta; io, dato che quarta e quinta erano a Cassine, ho fatto fino alla terza qui a Gavonata; due o tre bambini di Gavonata sono andati a Cassine a fare quarta e quinta, andavano a piedi (più avanti han cominciato ad andare in bicicletta); d'inverno andavano a casa di Cesira, al caldo, si portavano da mangiare... da Gemu tenevano un po' di pensione...

Tutti i giorni lavoravamo nei campi: in collina si usava la vanga, la zappa... nei campi si lavorava col bue, persino con la mucca... e neppure tutti l'avevano...

Nel tempo libero andavamo per nidi (a cercare i nidi)...

Alla domenica quasi tutti andavano a Messa... Chi non era di Chiesa, allora era quasi un bandito...

I giorni festivi ci trovavamo anche nella Società, dove si discorreva, si giocava a carte...

La giornata lavorativa andava da quando sorgeva il sole a quando tramontava... si faceva merenda nel pomeriggio, rapanelli, cipollotti... e poi quand'era buio si tornava a casa.

C'erano delle belle feste: a Cassine si faceva San Giacomo, Sant'Urbano, a Gavonata si faceva la festa di Fontanile, quindici giorni dopo Pasqua... Venivano a piedi da Maranzana, da Sezzadio, da Gamalero, da San Rocco... la strada era piena di gente... Le donne andavano a "trovare" la Madonna, c'erano le bancarelle con torrone, dolci, e poi c'era il ballo a palchetto, con la banda che veniva da Mombaruzzo... suonavano valzer, polka, mazurka... c'erano dei clarinetti che oggi non si sentono più... La gente "correva" perché allora non c'erano i locali da ballo...

A Cassine il mercato era tutti i venerdì, poi l'han spostato al sabato: hanno ricorso perché al sabato chi comprava carne... qualcosa di più del venerdì...

Vendevano roba di tutti i generi: verdura, formaggio, stoffa, scarpe, polli, conigli... tutti i generi.

Ci andava mia mamma, a vendere le uova (a casa se ne mangiavano poche, per venderle...) e anche i polli... poi comperava un paio di calzoni - aveva quattro figli - o una giacca... Venivano anche da San Rocco, per poter guadagnare dei soldi, per veder "la moneta"... Allora non c'era Piazza Cadorna, il mercato era in Piazza Santa Caterina.

I bambini, allora... si giocava con la "mongia", che è la trottola, non come adesso che i bambini hanno un mucchio di giocattoli... quelli che erano più ricchi forse ne avevano... La "mongia" si comperava... era rotonda, si tirava con uno spago e girava... ronzando... si giocavano anche i soldi... - quasi un po' di gioco d'azzardo! - ... giocavano anche alle biglie...

Per trovar lavoro, qui a Gavonata, come negli altri paesi, una buona parte emigrarono in Sud America... nelle famiglie numerose, in cui c'erano sette o otto fratelli, non c'era lavoro per tutti (allora a Gavonata c'erano cinquanta, sessanta bambini che andavano a scuola... non ce n'erano che avevano pochi figli...).

I miei fratelli hanno lavorato alla Fornace dei Fratelli Benzi, dove facevano le tegole di terracotta e i mattoni. I Benzi avevano quattro cavalli, con carretti e "tumbarè" (era un'industria fiorente), che continuavano tutto il giorno a portare le tegole alla stazione.

Io ho lavorato sempre nei campi. In ferrovia allora davano 37 o 38 lire al mese, a fare manutenzione. Mia sorella aiutava in campagna, mio fratello lavorava alla fornace. Poi mi son sposato, nel '26, sono venuto qui dove abito adesso, e son sessant'anni che abito qui.

In America allora trovavano lavoro: in Sud America si lavorava in campagna (l'America del lavoro!), in Nord America nelle fabbriche (l'America dei soldi!).

Qualcuno è emigrato in Australia, qualcun altro in California... come Carletu... ed erano quelli che stavano meglio. A New York c'erano emigrati da tutto il mondo: raccoglieva Giapponesi, Turchi... da tutto il mondo...

Poi non si poteva più andare... senza il "richiamo" non si poteva più emigrare, per la crisi... allora c'era già l'inflazione, lo scudo sudamericano valeva 44 soldi, al nord c'era il dollaro...

Anche mio papà, che è morto nel 1915, faceva il contadino: un po' di campi, un po' di viti... avevamo la mucca... tiravamo avanti "per mangiare".

Quando è incominciata la Prima Guerra Mondiale, il 24 maggio 1915, avevo diciannove anni. Io il 22 novembre sono stato chiamato... si andava anche allora a raccomandarsi, perchè quelli che erano in fanteria erano i più bersagliati... allora mia mamma, per "raccomandarmi", era andata in una cascina... c'era un tenente bravo... ha portato due polli... ma quel signore ha detto di portarli pure a casa, perché ne aveva già ricevuti tanti, dato che tutti andavano con lo stesso scopo... Tramite una mia zia sono andato anch'io a raccomandarmi, perché dovevo andare nel II° Corpo Granatieri...

Il 22 novembre 1915 sono stato destinato a Piacenza: siamo partiti da Alessandria in ottanta... coscritti... eravamo giovani, contenti... siamo arrivati là, ci han portato in una caserma, ci hanno insegnato a dormir per terra, più o meno vestiti... il pagliericcio era un sacco con dentro una manciata di paglia, non si dormiva sul pavimento, c'era una tavola, un isolamento dal pavimento, si dormiva con una coperta: abbiamo passato l'inverno... tanti si ammalavano, avevano la tosse, ma gli Ufficiali ci trovavano a dire: "Qui non è un ospedale, è una caserma!"

Poi ci hanno vestiti, ci hanno dato la divisa, ci hanno addestrati: il Caporal Maggiore anziano ci ha istruiti ad andare in file, tenere il passo, avanti - indietro, fronte a dest, fronte a sinist... ci ha insegnato a presentarci agli Ufficiali: quando ci chiamavano davanti ad un superiore, prima si faceva il saluto, sull'attenti, con le mani giù, con i tacchi uniti... ci hanno insegnato la disciplina militare, i regolamenti... così abbiamo tirato avanti tutto l'inverno, fino alla primavera... poi l'istruzione ai cannoni: farli, disfarli, smontarli,  tirarli su, giù, perché erano grossi, pesavano molti quintali... avevamo la "capra", una specie di paranco, con la "taiora" (una carrucola) di legno, poi ce ne han dato una francese con la catenetta, per sollevare i pezzi del cannone, che erano trenta, quaranta quintali...

Per trainarli lungo i sentieri, in montagna, c'erano dei carrelli con delle ruote alte così, si legava il pezzo del cannone sul carrello, c'erano due o tre timonieri al timone, che mettevano le "manovelle"... li portavano fino a 1300 metri, sulla linea del fronte; questo nella primavera del 1916.

I Tedeschi ci hanno fatto un'offensiva di fronte a Vicenza e lasciavano dietro la zona della III Armata, fino a Monfalcone... se sfondavano lì si perdeva un'armata, che era comandata dal Duca d'Aosta. I Tedeschi erano nel Trentino, si sono fermati, se no tagliavano fuori metà del fronte e quelli che eran di là in Friuli, dovevano ritirarsi o darsi prigionieri.

Noi eravamo pronti, con cannoni nuovi: erano duecentodieci mortai della Breda di Milano, a settecento pallini, ognuno era centosette chili; io e un bolognese, con una sbarra, si portava il tubo di caricamento del mortaio; lo "strapen" era questo proiettile, questa specie di granata che però  doveva scoppiar per aria, aveva un orologio, era a tempo, e scoppiava ad altezza d'uomo, si lanciava e scoppiava a cinque chilometri, non so che raggio... la spoletta aveva una miccia che entro un certo numero di secondi si incendiava, senza l'urto, mentre la granata era a percussione (scoppia quando colpisce qualcosa).

C'era un osservatorio con gli Ufficiali, per controllare se i tiri effettuati dalla batteria erano centrati sull'obiettivo, se no facevano le opportune correzioni del tiro.

Ad agosto del '16 siamo andati alla presa di Gorizia, soprattutto la fanteria, e abbiamo visto cinquantamila morti. Lì mi sono ammalato, mi è venuta la febbre, mi han mandato a Milano all'ospedale; mi sono raccomandato a una suora, perchè eravamo in un collegio... le ho raccontato la mia storia, le condizioni della mia famiglia... mi ha fatto avere quaranta giorni di convalescenza e son venuto a casa. A settembre abbiamo vendemmiato. Il 2 ottobre dovevo partire. Sono andato al deposito, dove destinavano i soldati che arrivavano dagli ospedali... Da qui, altra destinazione.

L'ufficiale mi ha detto: "Volete venire da cuciniere?" (Avevano richiamato Geniu 'u Sucrou, dell'84... 85...)

"Certo!"

Mi ha portato in fureria. "Questo lo porto su in cucina!"

"È già in partenza!"

Così... pazienza... Ho passato la visita e mi han fatto abile. Eravamo di partenza sul treno per Cervignano-Monfalcone: eravamo militari "di rinforzo", andavamo a rimpiazzare altri soldati, a tappare i buchi; il fronte era lungo 600 chilometri... eravamo cinque milioni di soldati: tre milioni al fronte, due milioni nell'interno (dalla Svizzera a Monfalcone).

Alla fine siamo arrivati a Casarsa, prima di Udine, sul Tagliamento; di lì i treni andavano in Carnia; lì io ero assegnato a un gruppo di quaranta soldati; altri settanta, dell'altra squadra, sono andati a Cervignano, un fronte cattivo... Noi quaranta siamo andati in zona di difesa, ho fatto un anno in Carnia, là la batteria era già a 1.323 metri.

Alla fine del '16 siamo andati di rinforzo in queste batterie (compagnie di circa cento uomini); ci han chiesto che scuola abbiamo fatto, a noi arrivati, e io avevo vergogna a dir che ho fatto la terza; ho detto: "Ho fatto quarta!"

Dopo un po' di giorni: "Cattaneo!", "Presente!", "Siete assegnato a fare il corso da telefonista e tagliafili!"

Ho fatto quattro e più anni - con quaranta e più meriti - da telefonista e tagliafili, ero ben visto dagli ufficiali... avevo insieme dei bergamaschi lavoratori, già un po' elettricisti...

Noi si faceva le linee, si tirava i fili... col filo di ferro, linee pesanti, e filo d'artiglieria, più sottile...

Il telefono... allora c'era il centralino che smistava le comunicazioni, noi si stava al centralino; quelli che erano più letterati erano in ufficio a scrivere; si facevano le comunicazioni.

In una buca, nella terra, per muri han messo delle piante, dei tronchi, sopra... cartone e terra, la porta per entrare: lì avevamo il centralino - una specie di tana - avevamo la stufa a legna: si faceva fuoco, d'inverno, in una latta che serviva da stufa.

Questo nel '17 in Carnia, una regione del Friuli. C'è una stazione che si chiama Stazione di Carnia, ci passa la ferrovia che va in Austria; da Tarvisio c'era un braccio di ferrovia che andava fino a Villa Santina - Fermo Cadore; adesso han soppresso il treno, non ci va più a Villa Santina.

Nel '17, ai Santi, si fa la ritirata: abbiamo avuto l'ordine di ritirarci, di prendere l'otturatore, buttarlo in un burrone per evitare che i nemici se ne impossessassero; abbiamo preso quei due o tre stracci che avevamo e via, ritirarsi; nel frattempo, durante la ritirata, mi si è forato un dente; il medico mi ha mandato a Chiusaforte dal dentista. Quel dentista ebbe compassione di noi - era capitano - dopo tre quattro giorni mi ha medicato il dente; la mattina dopo ci ha lasciati in libertà; tutti venivano indietro: da Chiusaforte son venuto indietro a Moggio Udinese... sono andato al mio reparto, che da Moggio distava nove chilometri, attraverso questa valle; là mi son presentato in fureria (a Chiusaforte c'erano dei soldati, tra la III Armata e noi, che erano scappati).

Un ufficiale mi ha detto: "Gli Austriaci sono già ad Udine!"

Dopo qualche giorno di nuovo l'ordine di ritirarsi: siam venuti a Moggio, un paese grande come Cassine; lì c'é stato un "saccheggio": tutti erano padroni di quel che riuscivano a prendere: chi prendeva formaggio, chi bottiglie... perchè c'erano magazzini dove i soldati addetti alla spesa compravano, c'erano magazzini grossi, c'era di tutto: chi arrivava, prendeva... si procuravano da mangiare... noi lo chiamavamo "saccheggio".

Siam venuti a Tolmezzo; lungo la strada uomini si ubriacavano, poi restavano lì ubriachi...

Siamo venuti a Tolmezzo, una cittadina come Acqui, con il ponte sul Tagliamento; in riva al ponte la gente: borghesi, uomini, donne, bambini, carri, buoi, culle, sui carri un po' di tutto, farina... erano uno sull'altro: borghesi, soldati... per passare sul ponte si prendevano a botte... Basta... dopo ore ed ore siam passati: alcuni passavano aggrappandosi esternamente al ponte...

Siamo andati oltre, in una frazione, dove siamo rimasti due o tre giorni in attesa di ordini.

A Tolmezzo, il ponte era come quello di Sezzadio, di ferro, non bastava più per la gente: militari, carri, buoi, donne, uomini, bambini... per passare di là...

Vicino a quel ponte c'era un po' di pianura, non era una valle stretta di montagna; attorno ai campi c'erano dei biancospini grossi come una gamba, alti quattro o cinque metri... Noi eravamo già dall'altra parte... dietro queste siepi gli Austriaci passavano correndo, col fucile... si vedevano come guardare là...

C'era lo stradale che faceva il valico, si saliva, ma non era alto... e si scendeva in pianura... nel scendere il Tagliamento era già aperto nella pianura... c'era tutta una fila di draghi: sono dei palloni - aerostati - che servivano da osservatori... ce n'era una serie che si vedevano come fino a Cassine: avevano la forma di un maiale, non erano fatti come un fiasco, no, erano coricati...

Allora ne abbiamo rotto uno, ma grosso, che era attaccato a una fune da camion... e c'erano gli aerostieri, quelli dell'osservazione, lasciavano andare su, mollavano la corda attaccata... e andava su un ufficiale che andava a vedere cosa facevano gli Austriaci... e poi dentro avevano come una culla, erano seduti, col telefono, e stavano là a osservare, davano i dati a noi, ma noi eravamo a zero, non avevamo più niente, solo più le scarpe nei piedi... qualcheduno di fanteria si trovava in quelle siepi e dicevano che c'erano gli Austriaci... noi abbiamo preso quella strada di corsa... e via a correre! Basta! Austriaci non ne abbiamo trovati! Poi siamo scesi vicino a Pordenone: lungo lo stradale che viene su da Padova e va verso Udine... soldati che scappavano... sbandati, con più niente, pieni di fame...

Abbiamo preso questo stradale, a Sacile c'era una ferrovia che l'han fatta gli Austriaci, che andava a Vittorio Veneto... l'hanno fatta più in là, che gli Italiani non la vedevano... questa ferrovia veniva a Conegliano... arrivati lì, c'era la gente come le formiche, la strada non bastava più per la gente, uomini, donne, militari che scappavano, donne in bicicletta, signorine... e lì abbiamo passato il Piave, siamo andati sotto il Grappa, a Romano Alto... noi eravamo con quattro cannoni, ne avevamo dodici, ma otto li avevamo persi... ci hanno mandato sotto il Grappa con questi quattro cannoni, ma poi si doveva salire... poichè ne avevamo solo quattro, abbiamo dovuto lasciare uomini e pezzi e ci hanno destinato a Este, in provincia di Padova... si faceva la ritirata...

Este era oltre il Po, abbiamo attraversato il Po, a Pontelagoscuro, non so a quanti chilometri ci sia il mare... non l'ho visto, il mare... si vedeva Ravenna a occhio nudo, ma noi non siamo andati, siamo andati avanti, camminavamo dalla mattina alla sera... siamo andati vicino alla ferrovia Mantova-Bologna, e lì mi han fatto un biglietto ufficiale di montare sul treno... a Nogara, che era lungo la ferrovia; nella stazione c'era in servizio di picchetto un tenente colonnello (gli ufficiali di picchetto si mettono la fascia di traverso): 

"Maresciallo, venga qua!"

"Comandi!"

"Vergogna! Trentamila artiglieri senza cannoni!"... e noi là, tutti sull'attenti... gliene ha dette tante... adesso non mi ricordo...

Arrivato il treno, siamo saliti, siamo andati a Cividale, dovevamo andare a Mirandola, noi, ma il treno non ci passava, siamo scesi a Cividale, c'era un omnibus del comune, col cavallo, ma aveva le rotaie... siamo montati su e siamo andati a Mirandola, provincia di Modena... lì mi han dato del pane francese, che noi non ne avevamo più...

Il reparto non l'ho abbandonato, perchè avevo paura di andar peggio, perchè noi si poteva andar via quando si voleva, ma noi siamo stati con loro, ai suoi ordini, ed erano contenti...

Mi hanno adibito al comando, che tutti i posti che c'è a militare lo sa, li manda: "Andate a quella cascina, via tale, numero tale, c'è due letti... tre letti..."

Siamo stati adibiti lì. Io ero guardafili telefonista di centralino: si diceva "Pronto?"

"Dammi il numero tale..."; mi hanno messo di piantone: come piantone facevo il servizio d'ufficio, mi mandavano a cercare per quella cittadina (era come Nizza), andavo a cercare preti militari, ufficiali, con le guardie...

Vado nella via tale, chiamo a un numero: "Permesso?"; esce la padrona, il padrone...

"C'è un ufficiale, qua?"

"Sì"

"Devo parlarci"

Avevo la lettera: "Devo consegnare questa busta"; si andava indietro a prenderne altri...

Abbiamo fatto l'inverno del '18. Sulla piazza c'era il padre di Borsino, era carabiniere...

Borsino, il maresciallo, era della mia classe... lui mi ha conosciuto: "Oi, d'la Gavunà"

"At cunes nent..."

Era vestito da soldato sbandato.

"A sun Bursei"

C'era anche un altro: uno aveva il paletò, da militare, l'altro la mantella... ero in confidenza, lo trovavo... si parlava, mi chiamava... Camminando per la strada, una volta ero in mezzo, e Borsino ma ha detto: "Levati di lì, che pare che tu sia in arresto!"

Gli ho detto: "Noi queste regole non le conosciamo!"

In primavera andiamo a Piacenza nel nostro deposito, lì mi han dato tutto nuovo, migliaia, migliaia di soldati... delle piazze di cannoni... e ogni giorno ne partiva un reggimento... moto, biciclette, corde... tutto nuovo...

Uno ha detto che avrebbe voluto che l'Austria andasse fino in Sicilia... s'è fatto sentire, ha avuto la fucilazione, lì a Mirandola.

Dopo quindici, venti giorni che eravamo a Piacenza, siamo di partenza, armati di tutto... c'è un treno, siamo partiti, siamo andati a Castelfranco... Si è fermato il treno, siamo scesi: "Che cosa dobbiamo fare?"... siamo andati all'osteria: "Di', o padrone, dove si trova Caerano? Siamo destinati ad andare a Caerano..."

"Là sparano!"... noi lo sapevamo già che sparavano... pioveva, c'era un fango! con i cingoli le trattrici ci portavano... c'era delle trattrici che non erano con noi, andavano quando erano comandati... hanno preso i cannoni... là era tutto pronto, le piazzole, un piano di travi... noi tiravamo i fili: tira di qua, tira di là... e poi abbiamo fatto i tiri per provare, i tiri di aggiustamento... che avevamo Valdobbiadene, Moriago, Vidor...

Poi si sparava: "Noi questa notte alle due dobbiamo sparare sulla strada tale... un paese..."; noi, dodici cannoni... la granata 44 chili, per ogni pezzo (ogni cannone) 40 chili; al comando: "Batteria, fuoco!", il maggiore al telefono... insomma si doveva sparare alle due e noi alle dieci eravamo già informati di prepararsi... tutto pronto, tutto a posto...

Sentendo al telefono "Batteria, fuoco!" tran-tran-tran... una vampata! di notte. 

Così quasi tutte le notti... Poi nell'offensiva, di giorno, loro, gli Austriaci - noi siamo informati che ci sparano - si preparavano: al 18 giugno del '18, alle tre di mattina, loro hanno attaccato il fuoco, noi abbiamo contrattaccato subito, il cielo era rosso... noi sul fronte si aveva seimila cannoni e tre milioni di uomini, al fronte... 

Ad Acqui c'è il monumento agli artiglieri di montagna, coi muli, che portano sul basto tutto: mangiare, munizioni, cannoni...

Io ero a sinistra del Montello: il Montello è dieci chilometri per dodici, ma era una collina bassa, come Gamalero... noi eravamo "strada di pianura"... lì facevano, dal 18 al 22, quattro giorni di offensiva e controffensiva, ma loro son passati di qua quattro chilometri di profondità, noi abbiamo avuto la fortuna di mandarli indietro a cannonate, a sinistra del Piave...

La battaglia più forte è stata a destra del Montello, prima... invece di sparare a Nord, si sparava a Est, si sparava al ponte che hanno buttato giù a zattere... il Genio Pontieri l'aveva buttato giù nel fiume... abbiamo sparato quattro giorni, dal 18 al 22 giugno: dei dodici cannoni ne avevamo cinque fuori uso (dentro al cannone c'è una rigatura che dà la rotazione al proiettile... cinque con la rigatura fuori uso... e uno ha preso un colpo...).

Nel '18 noi eravamo più forti che loro, avevamo da mangiare, non ci mancava niente, loro mangiavano i cavoli in conserva nei barili, fagioli nella minestra, senza pasta, il pane nero come fuliggine... eravamo quasi superiori... nel Diciotto se loro mandavano un colpo, noi ne mandavamo dieci... avevamo gli Arditi, le bombarde (c'erano soldati che erano nei Bombardieri), cannoni che hanno inventato a tempo di guerra, che tiravano una bomba, strappavano tutto...

Nel Quindici, solo a Gorizia abbiamo perso cinquantamila uomini, tagliavamo i fili, le reti con le forbici, con le tenaglie, si faceva la guerra a forza di braccia, andare all'assalto... invece i bombardieri spianavano tutto, queste bombe erano cariche degli esplosivi più terribili...

L'aviazione era zero con noi, non zero... ma mancava poco... se dava fuori qualche apparecchio, i nostri... fuori per la caccia! Sul Montello il maggiore Baracca scendeva a bassa quota a mitragliare i Tedeschi a cento metri... ha preso una fucilata nel serbatoio della benzina, s'è incendiato, è stato carbonizzato... Il re è andato a vedere sul posto.

L'aviazione era più forte: avevamo Baracca e Baracchini...

Baracchini era un toscano, aveva poca salute, si è congedato... Baracchini ne ha abbattuto 31, Baracca ha abbattuto 33 aeroplani austriaci... Non potevano più tirare avanti, mancava di tutto, i soldati facevano delle sommosse... quando si ha fame... Hanno mandato tre o quattro austriaci e quattro o cinque italiani alle prime linee (non posso dire quanti, non li ho visti): "Pace!", si sono incontrati quattro o cinque di là e quattro o cinque di qua: "Cosa dobbiamo fare?"... hanno fatto un armistizio.

A mezzanotte è arrivato un fonogramma: "Cessate il fuoco!", la guerra è finita... tutta la notte a cantare...

Ne ho viste tante... facendo il nostro dovere... io non facevo la spia, ma portavo rispetto agli ufficiali, eravamo sempre assieme, per tre anni, con questo ufficiale...

Dopo ho fatto ancora un anno di militare... Per i Santi sono venuto a casa, nel Diciannove: mi sono congedato il 19 dicembre... la guerra era finita nel Diciotto...

Abbiamo portato i cannoni a Sermine, una cittadina in provincia di Mantova, con dei camion... era sulle rive del Po, li imbarcavano sui navoni e andavano in fonderia; li abbiamo portati lì, e poi quelli dall'Ottantotto in basso sono restati là per andare in congedo, noi giovani siamo andati a Udine al recupero proiettili: dove trovavano bombe e proiettili, i borghesi andavano in Municipio o dai Carabinieri, e poi gli Artificieri andavano sul posto e li facevano scoppiare... Abbiamo perso un anno... son venuto a casa il 19 dicembre... poi c'era ancora il congedamento: dal 15 al 25, dieci giorni di congedamento... Prima son partiti quelli che andavano in Sicilia, in Calabria... più lontano... poi sono partito.


giovedì 27 gennaio 2022

Bonassola


 

 

 

                   Viaggio di nozze 

 

 

 

 

 

Fin dal nostro arrivo a Bonassola, dove avevamo prenotato un piccolo bungalow per trascorrere qualche giorno al mare, si capì che Franco, fuori casa, avrebbe incontrato qualche difficoltà ad adattarsi. L'ispezione fu assolutamente precisa, e lo stesso la caccia ai ragni. Per me, che ero cresciuta passando le vacanze in campeggio, il bungalow rappresentava un miglioramento, nella scala delle sistemazioni, perciò ero incuriosita, ma quel segnale si sarebbe riproposto e solo molti anni dopo avrei capito che il suo spirito di adattamento era davvero modesto, non solo, avrei compreso che c'era una conditio sine qua non: "non sono tranquillo" esprimeva uno stato d'animo di incertezza con cui Franco non voleva o non sapeva convivere. Chissà cosa l'aveva suscitata e dove, probabilmente bambino, l'aveva vissuta per la prima volta... La ricerca di questa "tranquillità" mi ha spiazzata più volte a tal punto che ho imparato a fare sempre un piano B, in modo da proporgli un'alternativa, perchè viaggiare in camper comportava fermarsi per dormire e capitò più di una volta che il mio piano A non gli permettesse di sentirsi tranquillo. 

Esplorando i dintorni di Bonassola, ci fermammo a Levanto e pranzammo con un piatto gigante di cozze.

mercoledì 26 gennaio 2022

Monza

 MONZA 

Monza mi è rimasta nel cuore.Giovanna ed io l'abbiamo già visitata: lo deduco dalle fotografie che ci ritraggono nei vialoni davanti alla Villa Reale, nei giardini della stessa, all'autodromo, sul tram o semplicemente in giro.




Tra l'altro Giovanna era pure in bicicletta! - la piccola bici di Antonio, direi - Avevamo infatti amici ospitali, che, a loro volta, venivano di tanto in tanto a Cassine: specialmente "la" Mariuccia con il nipotino.

 

 

 

Quando ero molto piccola, ricordo di essere rimasta impressionata dal racconto di questa donna, che - rimasta vedova da un giorno all'altro poiché il marito cadde dalla moto, battè la testa sul parciapiede e morì all'istante - fu sbattuta fuori casa dal suocero che evidentemente non l'aveva mai accolta. Erano titolari di una tabaccheria proprio a Monza e, improvvisamente, perdette marito e lavoro ritrovandosi sulla strada.

Forse fu una delle mie prime lezioni di vita: non ci sono certezze e il benessere di oggi può dileguarsi come neve al sole. Tuttavia mariuccia aveva un fratello - l'Ambrogio - che l'accolse nella casa in cui viveva insieme alla moglie maestra, "la villetta".  




 

 

 Così  quando nacque il loro unico figlio, lei divenne la zia più tenera e più felice del mondo. Ebbero un loro locale, che era al contempo tabaccheria, bar e ristorante per lavoratori, lungo il viale che conduceva al cimitero: viale Ugo Foscolo.

Oltre che in visita con la famiglia, ricordo di essere stata ospitata per diversi giorni da sola e ho ricordi di esperienze insolite al riguardo: in primo luogo facevo colazione con un vero cappuccino e un Buondì  Motta, insoliti per me a tal punto che elessi il cappuccino "la mia colazione preferita". E lo é ancora.

A Monza c'era un locale dedicato proprio ai prodotti della Motta: ci andai con mio padre per una degustazione golosa (erano gli anni Cinquanta!) e ci riotrnai negli anni Novanta quando andammo a trovare Fabio, ma ormai era sbarcato il Mc Donald e il Motta aveva perso gran parte del suo smalto. 

Tra i piatti che mi furono serviti da Mariuccia - poiché essendo ospite pranzavo ad uno dei tavolini adibiti alla ristorazione - mi colpì in partocolare il piccione arrosto accompagnato da riso bianco. Fu l'unica volta in cui mangiai un piccione; di solito ero io a spargere briciole per loro in piazza Duomo. Anche al Duomo tornammo in quella gita - negli anni Novanta - organizzata con lo scopo di far visita a Fabio nel suo nuovo luogo di lavoro.

C'era anche il nonno Adolfo, che si muoveva a Monza come se ci avesse vissuto sempre. O almeno faceva finta.  Così chiusi il mio cerchio. Mariuccia morì molto prima dei miei e mi restano solo tanti tanti ricordi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 25 gennaio 2022

Lerici

 




                     Lerici

 

 

 

 

Sono stata una bambina fortunata, al mare già da piccola grazie a tata Maria che viveva a La Spezia dove lavorava in un istituto bancario. Ricordo poco di quelle vacanze: un appartamento ad un piano alto cui si accedeva con scale...su, su, sempre più su. Non c'erano ascensori in quei palazzi di città costruiti per il ceto medio. Per quel che posso ricordare non c'erano neppure termosifoni. Anche a Genova, nell'alloggio che ci ospitava durante il periodo di studi universitari, niente ascensore e niente riscaldamento. Guai a dimenticare di comprare il pane!

Gianni, il padrone di casa, era nella polizia stradale ed aveva un sacco di conoscenze e contatti, per cui poteva davvero arrivare ovunque: conosceva persone che lavoravano al porto, al mercato del pesce, in municipio... aveva amici medici, direttori di qualsiasi ente... insomma bastava esprimere un desiderio che subito si materializzava.

Quando toccava a loro venire in visita, a Cassine, non dovevamo neppure ospitarli, perchè già ci pensavano Gina e Minichei d' Nolu (i genitori di Gianni). A lui piaceva andare a caccia e non parlava d'altro, almeno dal punto di vista di una bambina poco interessata all'argomento.

Tra Maria e Giuse c'era invece un'amicizia profonda, maturata probabilmente durante la guerra quando la famiglia Caneva era sfollata a Cassine. Se la raccontavano per ore, ma io ero esclusa dalle loro confidenze.

Così prima ancora che nascesse Paola, la legittima erede dei Gotta, io ebbi l'opportunità di venire coccolata e un po' viziata in quel di Lerici, Portovenere... insomma in quella zona del Levante ligure.

martedì 18 gennaio 2022

Angela

 

 





                    FOTO 3







Angela aveva un anno meno di me. Era venuta a vivere a Cassine, in  stazione, perché suo padre era il capostazione titolare e quindi aveva diritto all'alloggio. Alloggio che non era neanche male: vi si accedeva attraverso una scala ampia e chiusa in un vano sito di fianco alla biglietteria; occupava tutto il piano alto ed aveva ampie e luminose finestre che davano sul viale. Era comodo per me arrivare a casa sua e lo era altrettanto per lei in quanto ci separavano duecento metri, sì e no.

Fortuna volle che la famiglia di Angela possedesse un appartamento poco prima di Noli, proprio sull'Aurelia: bastava scendere in un sottopasso e si sbucava al mare, con parecchi scogli ed una spiaggetta. In uno dei garage sotto casa c'era un "moscone", cioè un pattino, con un galleggiante che faceva acqua, e un motoscafo. Nel medesimo appartamento si godeva il mare la famiglia di Pietro, che chiamavamo Pietruccio, cugino di Angela. Io ero stata invitata come ospite: devo dire che allora era molto più consueto far crescere i bambini e gli adolescenti in compagnia, così organizzavano il loro tempo libero e lasciavano tranquilli gli adulti. Naturalmente c'erano meno pretese, meno preoccupazioni e nessuno si sarebbe mai sognato di incolpare l'altro per aver trascurato la sorveglianza: c'era più fiducia, ci si fidava perchè si era ben consapevoli che ciascuno si sarebbe comportato come se il figlio ospite fosse figlio proprio. Così, con una breve passeggiata lungo l'Aurelia, che allora non era neppure troppo trafficata, arrivavamo a Noli, cittadina che ci piaceva molto ed offriva di tutto e di più, mentre remando lungo la costa dall'altra parte si arrivava a Spotorno. Ricordo che guardando verso la spiaggia e gli stabilimenti balneari un giorno riuscimmo ad individuare una famiglia cassinese che aveva l'appartamento al mare; semplicemente ci fermammo con il nostro moscone sulla riva ed andammo a salutarli...approfittando così per svuotare il galleggiante ormai pieno.

Rina

 













Andavo da Gilina (Angela) a vedere il varietà del sabato sera e il festival di Sanremo. Si guardava quella tv in bianco e nero con la luce spenta e mi sentivo privilegiata. Questo finchè Adolfo e lo zio Giuseppe si misero d'accordo per comprare un televisore pagandolo a metà: fui fortunata perchè l'apparecchio rimase a casa nostra, considerando che abitavamo vicini ed era inopportuno far muovere le bambine, mentre loro erano solo due adulti. Dopo qualche tempo iniziammo a considerarlo nostro. Tuttavia con Rina i rapporti di amicizia rimasero e si rafforzarono quando si innamorò di Mario che era un finanziere e per di più meridionale. C'era un regolamento che fissava persino l'età al di sotto della quale un membro della Finanza non poteva prender moglie: Rina e Mario avrebbero atteso ancora qualche anno e poi la moglie avrebbe seguito il marito nella località designata. Da buon meridionale Mario era pure molto geloso di quella fidanzata bella ed emancipata, che da anni raggiungeva il posto di lavoro col treno e aveva uno stuolo di corteggiatori. Non so come abbiano risolto questo problema, ma è certo che dopo il matrimonio Rina non lavorò più. Durante l'estate tuttavia ogni anno andava al mare da sua zia, che abitava a Ventimiglia ed era sola...forse vedova. Avrebbe potuto andarci da sola? Certo che no! Cosi ecco che entrai in gioco per salvaguardare l'onore della promessa sposa! Non voglio fare dell'ironia, non mi pare proprio il caso, però è vero che, accompagnando Rina in spiaggia, avrei tenuto lontani gli eventuali spasimanti: potevo essere sua figlia!

lunedì 17 gennaio 2022

Rita e Giuseppe

 



 



           Foto 2



 

 

In questa fotografia, che poteva essere utilizzata anche come cartolina postale (erano molto più avanti nelle città sul mare rispetto alla campagna piemontese nei primi decenni del secolo scorso), Rita appare molto bella: una giovane donna dai capelli corvini, curati e tagliati secondo la moda, gli occhi scuri e la fossetta sul mento. Anche la statura è notevole. Giuseppe la cinge con fierezza. Cosa l’avrà mai colpita in questo giovane? Per amore è convolata a nozze lasciando il mare, l’attività avviata, e si è trasferita nella periferia di un paese.

Lui le ha offerto una casa con terreno, pozzo, laboratorio, portico e cantina. Tuttavia il loro matrimonio non è stato”benedetto” dalla nascita di un figlio. Questo avrà pensato durante i primi anni: ci avranno provato e riprovato, l’avrà anche perso, un bambino (succedeva spesso e a quei tempi non c’erano molte alternative: era più facile rassegnarsi).

Ma il non avere figli le sarà sembrata una benedizione molti anni dopo, quando morirono – a poco tempo l’una dall’altra – le due bellissime figlie della sorella, Magda e Giovanna: la più giovane per malattia, la primogenita per un incidente.

Così anche Luigina, la sorella di Rita, che aveva fatto un matrimonio da favola, non ebbe modo di veder crescere un nipotino.

La vita sa essere molto crudele ed è facile dire che, dopo ogni caduta bisogna avere il coraggio di rialzarsi, ma solo un carattere determinato, unito ad una grande forza d’animo e ad un profondo senso dell’umana dignità potevano – e possono – sostenere una madre che perde un figlio: la sua vita è segnata da un profondo senso di privazione e da uno smarrimento che sconfina continuamente nella tristezza. Forse l’aiutare altri aventi bisogno potrà dare significato ai suoi giorni. In ogni modo Rita è invecchiata con dignità e serenità, che sono apparse anche più evidenti durante il periodo di vedovanza.

Era la zia Rita.


sabato 15 gennaio 2022

Adolfo

 





                              








C'era tra noi un affiatamento che non ritrovavo con altri in pista.

Mi piaceva anche la voglia di ballare che ci contagiava quando eravamo a tavola, o comunque dediti ad altre attività, sentivamo le note di un pezzo che ci piaceva e… pronti via! Ci alzavamo a ballare.

Anche se non sono mai stata brava a ballare il liscio, e me ne accorsi quando le scuole di ballo iniziarono a sfornare coppie tecnicamente più preparate, con lui mi sentivo sicura e riuscii a portare sulla pista quella disinvoltura ancora per molti anni, anche senza mio padre.

Mi sentivo leggera ed elegante in quel volteggiare fino allo sfinimento.

Questa, se mai ce ne fosse bisogno, è la prova di come cresciamo in balia di sentimenti e sensazioni contrastanti, talvolta motivati, talvolta del tutto immotivati: davvero marionette guidate dall'inconscio a discapito della consapevolezza che viene meno se non ci fermiamo per riportarci esattamente là dove siamo. Ma nessuno ci ha insegnato quali rischi corriamo quando ci abbandoniamo ai ragionamenti, quando valutiamo, soppesiamo, scegliamo, privilegiamo, affondiamo pezzetti di noi… così quando il sistema si imballa non riusciamo a tirarcene fuori.


               

venerdì 14 gennaio 2022

Con gli sci

 

  













FOTO 1



La data dietro questa fotografia - 2 56 – l’ha scritta mio padre, tant’è che il 2 potrebbe essere un 4. E sempre lui mi ha messo gli sci ai piedi regolando gli attacchi sulle mie scarpe. Come potessi stare sulla neve senza giacca oggi mi è davvero incomprensibile, freddolosa come sono diventata.

Ma quello che mi interessa evidenziare è il fusto del pero che esce dal portico: ricordo che si era discusso se tagliare quest’albero che si trovava proprio lì dove doveva essere costruita la parete lunga del portico oppure lasciare un’apertura per salvarlo e per continuare a mangiare le piccole e dolcissime pere di San Giovanni. Probabilmente le donne di casa si schierarono per la conservazione ed eccolo lì quell’albero tutto storto che continuò a dare frutti ancora per molti anni.

Nell’orto si vedono cavoli ancora coperti di neve, ma non interferiscono con la mia pista che va dalla scala di casa fino all’angolo tra via Moglia e via San Zeno.

Avanti e indietro.



Imitando Verdone

 








 

 

 

Imitando Verdone




 

 

 

 

 

 

 

 

 

                      

 

 

                Per cominciare


 

 

 

 

 

 

Dice l’autore che raccontando episodi del passato inconsciamente li modifichiamo facendo emergere aspetti che guariscono conflitti e portano serenità. E’ vero che, quando li ripercorro, mi giudico e vorrei aver detto parole diverse: perché non mi sono venute in mente? Ho fatto certamente la figura dell’imbranata. Il modello giovane donna attraente, affascinante, che sa ridere e fare battute, con rispettosi corteggiatori al seguito, strideva con le istruzioni genitoriali: non fermarti a parlare con chi non conosci. Anche se è soltanto un ragazzo in villeggiatura? Temo di sì. Così mi sono appiccicata addosso l’etichetta “non sono all’altezza” e me la sono portata sui banchi di scuola al liceo e all’università.

Tutta un’altra storia quando ero alle elementari e alle medie, perché lì tutti mi ripetevano quanto ero brava! Al ginnasio il cambiamento. Il mondo era pieno di giovani donne e giovani uomini più in gamba di me. Più sicuri. Meglio vestiti. E che discorsi sapevano fare! Leggevano romanzi appena pubblicati, mentre io attingevo esclusivamente alle edizioni economiche che pure mi aprivano un mondo! Le compravo nell’ordine in cui uscivano. Per esempio Mondadori solo dopo un po’ iniziò a numerarli. Comprai “Il Cardinale”, il primo che mi capitò tra le mani, in edicola, e non aveva numero. L’editore stava ancora tastando il terreno. Invece giravano in classe edizioni in brossure, che sfogliavo, quasi carezzavo: contenevano pagine realistiche, audaci, ma sfogliando a caso non le beccavo. Come per “Il giardino dei Finzi Contini”, che pareva scritto apposta per le mie compagne e i miei compagni.

Stava crescendo in me un complesso di inferiorità – oggi si chiamerà diversamente, lo so – che minava il solido terreno su cui avevo camminato da sempre. Non ero la sola a sentirmi fuori luogo, ma altri non sembravano esserne turbati e tiravano avanti apparentemente senza danni. Io dovevo aumentare lo sforzo, l’impegno, per raggiungere obiettivi sufficienti a stare a galla. Non mi era di consolazione il fatto che altri abbandonassero.

Già mi ero arresa con gli studi di pianoforte, ma almeno in quel caso non era stata una scelta mia: ero stata spinta a seguire orme che non mi avrebbero portata da nessuna parte, stretta com’ero tra desideri ambiziosi dei miei, elogi degli insegnanti che forse volevano solo conservarsi un’allieva, incomprensione per certi esercizi che mi parevano noiosi e a volte fingevo di eseguire, eccesso di tecnica e scarso piacere nelle esecuzioni. Certo una volta che avevo imparato un brano ero lieta di farlo sentire, ma il “che brava!” veniva da voci incompetenti o compassionevoli. “Non ce la posso fare a studiare latino, greco, filosofia e tutto il resto, se due pomeriggi la settimana devo andare ad Acqui a lezione di piano!”: eccola lì la scusa, già bella e pronta. “Continuerò a studiare qualche pezzo per conto mio e poi, quando avrò finito il liceo, vedremo…”. Arrivarono gli spartiti dei valzer e tanghi celebri, perché a me piaceva ballare il liscio con mio padre. Avevo imparato con lui e c’era tra noi un affiatamento che non ritrovavo con altri in pista. Mi piaceva anche la voglia di ballare che ci contagiava quando eravamo a tavola, o comunque dediti ad altre attività, sentivamo le note di un pezzo che ci piaceva e...pronti via! ci alzavamo a ballare. Anche se non sono mai stata brava a ballare il liscio, e me ne accorsi quando le scuole di ballo iniziarono a sfornare coppie tecnicamente più preparate, con lui mi sentivo sicura e riuscii a portare sulla pista quella disinvoltura ancora per molti anni, anche senza mio padre. Mi sentivo leggera ed elegante in quel volteggiare fino allo sfinimento. Questa, se mai ce ne fosse bisogno, è la prova di come cresciamo in balìa di sentimenti e sensazioni contrastanti, talvolta motivati, talvolta del tutto immotivati: davvero marionette guidate dall’inconscio, a discapito della consapevolezza che viene meno se non ci fermiamo per riportarci esattamente là dove siamo. Ma nessuno ci ha insegnato quali rischi corriamo quando ci abbandoniamo ai ragionamenti, quando valutiamo, soppesiamo, scegliamo, privilegiamo, affondiamo pezzetti di noi… così quando il sistema si imballa non riusciamo a tirarcene fuori.























giovedì 13 gennaio 2022

FINE

 

 

Indice

The flow

La donna

Filastrocca

In camper

Sciamani

Lione

Colonne sonore

Movimento

Conversazione telefonica

Gozo

Quaderni

Al cinema

Neve

Donne e buoi

Dipingere

Ronda

Sotto la neve il pane”

Dublino

Nuovo ufficio

Contatti

Spannocchiare

Al chiosco

Ego

Fine settimana

Seminario

Specchio

Umiltà

Laghi

New York

Dipendenza

Progetti

Dubbi

Gloria

Partenza

Maturità

Pandemia

Il miglior amico

A servizio

Blocco totale

Rissa

Radici

 




 Da questo punto lavorerò sulle mie radici e sarà un cammino solitario.

Radici

 


     

     

    Radici







 

Mio nonno usciva tutte le sere – non lo diresti, vero, Camilla? dato che i tempi sono cambiati… - anche d’inverno, con la neve, dopo essersi avvolto nel suo pastrano nero, cappello in testa, mezzo toscano in bocca. Andava al Bar Roma, dove giocava a carte, a scopa: chi perdeva pagava i caffè. Comprava anche delle mentine al Fernet, amare il giusto, che teneva sempre in tasca.

Era contento di avere una nipotina per casa, anche se le femmine non gli erano di aiuto nel lavoro dei campi. Qualche volta io andavo davanti al bue durante l’aratura, così lui guidava l’aratro e lo spingeva giù con forza perché il solco risultasse profondo. Lo aiutavo a girare il fieno, a vendemmiare, ma era poca cosa. Mio fratello neanche questo, perché era delicato di salute.

La sua famiglia faceva Ricci di cognome, ma il soprannome era ‘qùi d’l bò’, ‘quelli del bue’, perché coloro che avevano il bue erano benestanti in un mondo contadino in cui era molto diffusa la mezzadria. Venivano chiamati ‘particular’, perché erano poche le famiglie che possedevano cascina, stalla, terre e vigneti. Certo gli appezzamenti di terra erano frammentati e si doveva camminare un bel pezzo – più di un’ora certamente – per raggiungere i vigneti, ma si era abituati ad andare a piedi.

A mio nonno poi non è mai mancato un paio di scarponi e contro il freddo indossava un corpetto di lana, mutande lunghe sotto i pantaloni, una camicia in flanella, fazzoletto al collo, gilet, giacca e a volte pure la sciarpa. Sempre lo stesso abbigliamento, solo si potevano distinguere gli abiti della feste da quelli di tutti i giorni. Quando ero piccola, mi chiamava ‘sparpaia’, che vuol dire farfalla, forse perché mi muovevo con leggerezza e in continuazione.

Parlava dialetto, ma sapeva leggere e scrivere, anche se non lo si vedeva mai con un giornale o un libro in mano. Quei pezzi di giornale che giravano per casa, finivano nel gabinetto che si trovava in cortile, agganciati ad un fil di ferro. Con rispetto invece erano trattati i pochi libri di cui ho memoria, tutti di stampo religioso o patriottico, spesso biografie di santi o di uomini straordinari.

























Rissa

 

 


Rissa

Scriva, per favore, su questo taccuino, tutto quello che può associare a ciascun titolo…” chiede Anna con gentilezza alla paziente.

Bastano poche parole che facciano da promemoria, poi mi racconterà a voce i particolari.”

Rissa - La prima persona che mi è venuta in mente è mia sorella, in particolare nella circostanza in cui, tra le altre cose, mi ha detto di non voler condividere con me la cappella mortuaria per tenere unita la sua famiglia. E poi quell’altra, posteriore di alcuni anni, in cui mi ha riversato addosso parole dure per un privilegio di cui ero certamente felice, ma che non avevo cercato. Era successo, semplicemente.”

Ancora qualcosa? Rissa, conflitto, scontro…”

Risse vere e proprie erano anche quelle che si svolgevano nei Consigli di Classe: è successo tanto a Casale quanto a Cassine, e alla fine non c’erano vinti e vincitori, ma certo qualcuno ne usciva in lacrime (che in realtà erano lo sfogo per la tensione accumulata, l’irritazione, il nervosismo che aleggiava ed era palpabile).

Rissa mi sembrò, quando ero piccola, la lotta che si svolse sotto i miei occhi increduli tra mio padre ed un suo amici, un certo Alfio. Fingevano di sopraffarsi a vicenda ed io ho temuto davvero che qualcuno potesse fargli male: era l’uomo della mia vita.

Rissa quotidiana si svolgeva tra i nostri cani Penny e Dean, due femmine che di solito giravano tranquille per il giardino, salvo poi aggredirsi: o meglio era Dean che mordeva Penny sul muso facendola acquattare per terra per sottometterla – credo – mentre la poveretta guaiva e mi faceva una pena terribile.

Forse si possono definire risse anche alcune sceneggiate che abbiamo messo su in famiglia: spesso Franco ed io, in tempi abbastanza recenti, parecchie volte i ragazzi ed io, in tempi più lontani, quando loro erano bambini non indifesi ed io l’aggressore.”

Mi ha detto di avere tre figli. Franco è suo marito, suppongo…”

Sì, con Franco alcune volte è finita con un: ‘Basta! Non possiamo più stare insieme. Ci distruggiamo a vicenda!’ salvo poi continuare come prima, facendo finta che quelle ultime parole non fossero mai state pronunciate.

Risse verbali, sì, ma dolorose almeno quanto quelle fisiche.

Persone rissose, invece, ne ho conosciute poche e in questo momento non ne ricordo proprio.

Mia sorella però… va tutto bene se non la si contraddice, se la si lascia parlare dei suoi amici (pochi, e tutte donne) e dei suoi nemici (tutti gli extracomunitari, le persone di colore, le donne che indossano i pantaloni stretti con i tacchi alti, che vanno in giro mostrando abbondanti porzioni del corpo, tutte le prostitute con i loro protettori, ma soprattutto con i loro clienti, buona parte del genere umano di sesso maschile, poi coloro che gridano, che sono volgari, che ‘si lavano poco’, che non puliscono casa tutti i giorni e via di seguito…) perché lei rispetta le differenze, purché non le capitino sotto gli occhi. Per il resto è ironica, simpatica, costruttiva… insomma ha le sue virtù. Le apprezzo, quelle poche volte in cui ci vediamo.”







  1. Una grande famiglia

Proprio stamattina, appena sveglia, ho ripensato al post su Facebook che mi hai mostrato e ho cercato di ricostruire l’albero genealogico della famiglia cui alludevi, molto numerosa ma ahimè oggi ridotta di parecchi membri da malattie che non hanno lasciato loro la gioia di veder crescere figli e nipoti. Ne ricordo la matriarca, già in età avanzata e vedova. Il patriarca lo vidi in fotografia, in atteggiamento da pescatore con preda, in Sardegna. Anche questa foto era stata postata.

Primogenito era un figlio maschio del quale non ricordo la moglie, quindi può essere che fosse vedovo o divorziato. Si prendeva cura del suo figlio maschio, ora sposato e padre di una bellissima bambina. Venivano poi due coppie di gemelle, in cui una sorella era bionda e l’altra mora. La prima bionda, sposata e madre di una ragazza, ha avuto il dispiacere di vederla morire di cancro ancor giovane, lasciando tre figlie, due delle quali gemelle. La mora della prima coppia, invece, generò due femmine, una bionda e una mora, ma in questo caso non so se fossero gemelle. Del marito non ho alcun ricordo, anche se ho capito col tempo che il coniuge acquisito non resisteva a lungo, perché, di fatto, si ritrovava sposato a ‘tutta la famiglia’, perciò spesso si dava alla fuga. Confesso che potrebbe essere una mia malignità.

Quanto alla seconda coppia di gemelle, la bionda si è sposata ed ha avuto una figlia. Più o meno era mia coetanea. Purtroppo però né lei né il marito hanno avuto il piacere di conoscere il nipotino. La gemella mora numero due ebbe un figlio maschio, oggi credo ancora felicemente sposato a Venezia, ma fu lasciata dal marito e ricordo che passò momenti difficili. Spero si sia ripresa.

In seconda generazione la ragazza bionda si occupa dei due bellissimi figli. E proprio pensando a lei sono andata in confusione perché questi giovani li ho visti crescere e, da adolescenti, diventare adulti, quando hanno avuto modo di diventarlo.

Oggi non c’è più l’unione che negli anni Novanta contraddistingueva questo nucleo familiare: la casa che li riuniva – specialmente d’estate – è stata venduta e tutti i cugini vivono la loro vita frequentando amici differenti. Forse qualche matrimonio, battesimo o – ahimè – funerale li vedrà ancora riunirsi, ma quell’intreccio di relazioni non sarà più così stretto.

Era proprio così: sposare un membro di quella famiglia comportava accettare di integrarsi e convivere, almeno per brevi periodi, con tutti quanti.”