giovedì 27 gennaio 2022

Bonassola


 

 

 

                   Viaggio di nozze 

 

 

 

 

 

Fin dal nostro arrivo a Bonassola, dove avevamo prenotato un piccolo bungalow per trascorrere qualche giorno al mare, si capì che Franco, fuori casa, avrebbe incontrato qualche difficoltà ad adattarsi. L'ispezione fu assolutamente precisa, e lo stesso la caccia ai ragni. Per me, che ero cresciuta passando le vacanze in campeggio, il bungalow rappresentava un miglioramento, nella scala delle sistemazioni, perciò ero incuriosita, ma quel segnale si sarebbe riproposto e solo molti anni dopo avrei capito che il suo spirito di adattamento era davvero modesto, non solo, avrei compreso che c'era una conditio sine qua non: "non sono tranquillo" esprimeva uno stato d'animo di incertezza con cui Franco non voleva o non sapeva convivere. Chissà cosa l'aveva suscitata e dove, probabilmente bambino, l'aveva vissuta per la prima volta... La ricerca di questa "tranquillità" mi ha spiazzata più volte a tal punto che ho imparato a fare sempre un piano B, in modo da proporgli un'alternativa, perchè viaggiare in camper comportava fermarsi per dormire e capitò più di una volta che il mio piano A non gli permettesse di sentirsi tranquillo. 

Esplorando i dintorni di Bonassola, ci fermammo a Levanto e pranzammo con un piatto gigante di cozze.

mercoledì 26 gennaio 2022

Monza

 MONZA 

Monza mi è rimasta nel cuore.Giovanna ed io l'abbiamo già visitata: lo deduco dalle fotografie che ci ritraggono nei vialoni davanti alla Villa Reale, nei giardini della stessa, all'autodromo, sul tram o semplicemente in giro.




Tra l'altro Giovanna era pure in bicicletta! - la piccola bici di Antonio, direi - Avevamo infatti amici ospitali, che, a loro volta, venivano di tanto in tanto a Cassine: specialmente "la" Mariuccia con il nipotino.

 

 

 

Quando ero molto piccola, ricordo di essere rimasta impressionata dal racconto di questa donna, che - rimasta vedova da un giorno all'altro poiché il marito cadde dalla moto, battè la testa sul parciapiede e morì all'istante - fu sbattuta fuori casa dal suocero che evidentemente non l'aveva mai accolta. Erano titolari di una tabaccheria proprio a Monza e, improvvisamente, perdette marito e lavoro ritrovandosi sulla strada.

Forse fu una delle mie prime lezioni di vita: non ci sono certezze e il benessere di oggi può dileguarsi come neve al sole. Tuttavia mariuccia aveva un fratello - l'Ambrogio - che l'accolse nella casa in cui viveva insieme alla moglie maestra, "la villetta".  




 

 

 Così  quando nacque il loro unico figlio, lei divenne la zia più tenera e più felice del mondo. Ebbero un loro locale, che era al contempo tabaccheria, bar e ristorante per lavoratori, lungo il viale che conduceva al cimitero: viale Ugo Foscolo.

Oltre che in visita con la famiglia, ricordo di essere stata ospitata per diversi giorni da sola e ho ricordi di esperienze insolite al riguardo: in primo luogo facevo colazione con un vero cappuccino e un Buondì  Motta, insoliti per me a tal punto che elessi il cappuccino "la mia colazione preferita". E lo é ancora.

A Monza c'era un locale dedicato proprio ai prodotti della Motta: ci andai con mio padre per una degustazione golosa (erano gli anni Cinquanta!) e ci riotrnai negli anni Novanta quando andammo a trovare Fabio, ma ormai era sbarcato il Mc Donald e il Motta aveva perso gran parte del suo smalto. 

Tra i piatti che mi furono serviti da Mariuccia - poiché essendo ospite pranzavo ad uno dei tavolini adibiti alla ristorazione - mi colpì in partocolare il piccione arrosto accompagnato da riso bianco. Fu l'unica volta in cui mangiai un piccione; di solito ero io a spargere briciole per loro in piazza Duomo. Anche al Duomo tornammo in quella gita - negli anni Novanta - organizzata con lo scopo di far visita a Fabio nel suo nuovo luogo di lavoro.

C'era anche il nonno Adolfo, che si muoveva a Monza come se ci avesse vissuto sempre. O almeno faceva finta.  Così chiusi il mio cerchio. Mariuccia morì molto prima dei miei e mi restano solo tanti tanti ricordi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 25 gennaio 2022

Lerici

 




                     Lerici

 

 

 

 

Sono stata una bambina fortunata, al mare già da piccola grazie a tata Maria che viveva a La Spezia dove lavorava in un istituto bancario. Ricordo poco di quelle vacanze: un appartamento ad un piano alto cui si accedeva con scale...su, su, sempre più su. Non c'erano ascensori in quei palazzi di città costruiti per il ceto medio. Per quel che posso ricordare non c'erano neppure termosifoni. Anche a Genova, nell'alloggio che ci ospitava durante il periodo di studi universitari, niente ascensore e niente riscaldamento. Guai a dimenticare di comprare il pane!

Gianni, il padrone di casa, era nella polizia stradale ed aveva un sacco di conoscenze e contatti, per cui poteva davvero arrivare ovunque: conosceva persone che lavoravano al porto, al mercato del pesce, in municipio... aveva amici medici, direttori di qualsiasi ente... insomma bastava esprimere un desiderio che subito si materializzava.

Quando toccava a loro venire in visita, a Cassine, non dovevamo neppure ospitarli, perchè già ci pensavano Gina e Minichei d' Nolu (i genitori di Gianni). A lui piaceva andare a caccia e non parlava d'altro, almeno dal punto di vista di una bambina poco interessata all'argomento.

Tra Maria e Giuse c'era invece un'amicizia profonda, maturata probabilmente durante la guerra quando la famiglia Caneva era sfollata a Cassine. Se la raccontavano per ore, ma io ero esclusa dalle loro confidenze.

Così prima ancora che nascesse Paola, la legittima erede dei Gotta, io ebbi l'opportunità di venire coccolata e un po' viziata in quel di Lerici, Portovenere... insomma in quella zona del Levante ligure.

martedì 18 gennaio 2022

Angela

 

 





                    FOTO 3







Angela aveva un anno meno di me. Era venuta a vivere a Cassine, in  stazione, perché suo padre era il capostazione titolare e quindi aveva diritto all'alloggio. Alloggio che non era neanche male: vi si accedeva attraverso una scala ampia e chiusa in un vano sito di fianco alla biglietteria; occupava tutto il piano alto ed aveva ampie e luminose finestre che davano sul viale. Era comodo per me arrivare a casa sua e lo era altrettanto per lei in quanto ci separavano duecento metri, sì e no.

Fortuna volle che la famiglia di Angela possedesse un appartamento poco prima di Noli, proprio sull'Aurelia: bastava scendere in un sottopasso e si sbucava al mare, con parecchi scogli ed una spiaggetta. In uno dei garage sotto casa c'era un "moscone", cioè un pattino, con un galleggiante che faceva acqua, e un motoscafo. Nel medesimo appartamento si godeva il mare la famiglia di Pietro, che chiamavamo Pietruccio, cugino di Angela. Io ero stata invitata come ospite: devo dire che allora era molto più consueto far crescere i bambini e gli adolescenti in compagnia, così organizzavano il loro tempo libero e lasciavano tranquilli gli adulti. Naturalmente c'erano meno pretese, meno preoccupazioni e nessuno si sarebbe mai sognato di incolpare l'altro per aver trascurato la sorveglianza: c'era più fiducia, ci si fidava perchè si era ben consapevoli che ciascuno si sarebbe comportato come se il figlio ospite fosse figlio proprio. Così, con una breve passeggiata lungo l'Aurelia, che allora non era neppure troppo trafficata, arrivavamo a Noli, cittadina che ci piaceva molto ed offriva di tutto e di più, mentre remando lungo la costa dall'altra parte si arrivava a Spotorno. Ricordo che guardando verso la spiaggia e gli stabilimenti balneari un giorno riuscimmo ad individuare una famiglia cassinese che aveva l'appartamento al mare; semplicemente ci fermammo con il nostro moscone sulla riva ed andammo a salutarli...approfittando così per svuotare il galleggiante ormai pieno.

Rina

 













Andavo da Gilina (Angela) a vedere il varietà del sabato sera e il festival di Sanremo. Si guardava quella tv in bianco e nero con la luce spenta e mi sentivo privilegiata. Questo finchè Adolfo e lo zio Giuseppe si misero d'accordo per comprare un televisore pagandolo a metà: fui fortunata perchè l'apparecchio rimase a casa nostra, considerando che abitavamo vicini ed era inopportuno far muovere le bambine, mentre loro erano solo due adulti. Dopo qualche tempo iniziammo a considerarlo nostro. Tuttavia con Rina i rapporti di amicizia rimasero e si rafforzarono quando si innamorò di Mario che era un finanziere e per di più meridionale. C'era un regolamento che fissava persino l'età al di sotto della quale un membro della Finanza non poteva prender moglie: Rina e Mario avrebbero atteso ancora qualche anno e poi la moglie avrebbe seguito il marito nella località designata. Da buon meridionale Mario era pure molto geloso di quella fidanzata bella ed emancipata, che da anni raggiungeva il posto di lavoro col treno e aveva uno stuolo di corteggiatori. Non so come abbiano risolto questo problema, ma è certo che dopo il matrimonio Rina non lavorò più. Durante l'estate tuttavia ogni anno andava al mare da sua zia, che abitava a Ventimiglia ed era sola...forse vedova. Avrebbe potuto andarci da sola? Certo che no! Cosi ecco che entrai in gioco per salvaguardare l'onore della promessa sposa! Non voglio fare dell'ironia, non mi pare proprio il caso, però è vero che, accompagnando Rina in spiaggia, avrei tenuto lontani gli eventuali spasimanti: potevo essere sua figlia!

lunedì 17 gennaio 2022

Rita e Giuseppe

 



 



           Foto 2



 

 

In questa fotografia, che poteva essere utilizzata anche come cartolina postale (erano molto più avanti nelle città sul mare rispetto alla campagna piemontese nei primi decenni del secolo scorso), Rita appare molto bella: una giovane donna dai capelli corvini, curati e tagliati secondo la moda, gli occhi scuri e la fossetta sul mento. Anche la statura è notevole. Giuseppe la cinge con fierezza. Cosa l’avrà mai colpita in questo giovane? Per amore è convolata a nozze lasciando il mare, l’attività avviata, e si è trasferita nella periferia di un paese.

Lui le ha offerto una casa con terreno, pozzo, laboratorio, portico e cantina. Tuttavia il loro matrimonio non è stato”benedetto” dalla nascita di un figlio. Questo avrà pensato durante i primi anni: ci avranno provato e riprovato, l’avrà anche perso, un bambino (succedeva spesso e a quei tempi non c’erano molte alternative: era più facile rassegnarsi).

Ma il non avere figli le sarà sembrata una benedizione molti anni dopo, quando morirono – a poco tempo l’una dall’altra – le due bellissime figlie della sorella, Magda e Giovanna: la più giovane per malattia, la primogenita per un incidente.

Così anche Luigina, la sorella di Rita, che aveva fatto un matrimonio da favola, non ebbe modo di veder crescere un nipotino.

La vita sa essere molto crudele ed è facile dire che, dopo ogni caduta bisogna avere il coraggio di rialzarsi, ma solo un carattere determinato, unito ad una grande forza d’animo e ad un profondo senso dell’umana dignità potevano – e possono – sostenere una madre che perde un figlio: la sua vita è segnata da un profondo senso di privazione e da uno smarrimento che sconfina continuamente nella tristezza. Forse l’aiutare altri aventi bisogno potrà dare significato ai suoi giorni. In ogni modo Rita è invecchiata con dignità e serenità, che sono apparse anche più evidenti durante il periodo di vedovanza.

Era la zia Rita.


sabato 15 gennaio 2022

Adolfo

 





                              








C'era tra noi un affiatamento che non ritrovavo con altri in pista.

Mi piaceva anche la voglia di ballare che ci contagiava quando eravamo a tavola, o comunque dediti ad altre attività, sentivamo le note di un pezzo che ci piaceva e… pronti via! Ci alzavamo a ballare.

Anche se non sono mai stata brava a ballare il liscio, e me ne accorsi quando le scuole di ballo iniziarono a sfornare coppie tecnicamente più preparate, con lui mi sentivo sicura e riuscii a portare sulla pista quella disinvoltura ancora per molti anni, anche senza mio padre.

Mi sentivo leggera ed elegante in quel volteggiare fino allo sfinimento.

Questa, se mai ce ne fosse bisogno, è la prova di come cresciamo in balia di sentimenti e sensazioni contrastanti, talvolta motivati, talvolta del tutto immotivati: davvero marionette guidate dall'inconscio a discapito della consapevolezza che viene meno se non ci fermiamo per riportarci esattamente là dove siamo. Ma nessuno ci ha insegnato quali rischi corriamo quando ci abbandoniamo ai ragionamenti, quando valutiamo, soppesiamo, scegliamo, privilegiamo, affondiamo pezzetti di noi… così quando il sistema si imballa non riusciamo a tirarcene fuori.


               

venerdì 14 gennaio 2022

Con gli sci

 

  













FOTO 1



La data dietro questa fotografia - 2 56 – l’ha scritta mio padre, tant’è che il 2 potrebbe essere un 4. E sempre lui mi ha messo gli sci ai piedi regolando gli attacchi sulle mie scarpe. Come potessi stare sulla neve senza giacca oggi mi è davvero incomprensibile, freddolosa come sono diventata.

Ma quello che mi interessa evidenziare è il fusto del pero che esce dal portico: ricordo che si era discusso se tagliare quest’albero che si trovava proprio lì dove doveva essere costruita la parete lunga del portico oppure lasciare un’apertura per salvarlo e per continuare a mangiare le piccole e dolcissime pere di San Giovanni. Probabilmente le donne di casa si schierarono per la conservazione ed eccolo lì quell’albero tutto storto che continuò a dare frutti ancora per molti anni.

Nell’orto si vedono cavoli ancora coperti di neve, ma non interferiscono con la mia pista che va dalla scala di casa fino all’angolo tra via Moglia e via San Zeno.

Avanti e indietro.



Imitando Verdone

 








 

 

 

Imitando Verdone




 

 

 

 

 

 

 

 

 

                      

 

 

                Per cominciare


 

 

 

 

 

 

Dice l’autore che raccontando episodi del passato inconsciamente li modifichiamo facendo emergere aspetti che guariscono conflitti e portano serenità. E’ vero che, quando li ripercorro, mi giudico e vorrei aver detto parole diverse: perché non mi sono venute in mente? Ho fatto certamente la figura dell’imbranata. Il modello giovane donna attraente, affascinante, che sa ridere e fare battute, con rispettosi corteggiatori al seguito, strideva con le istruzioni genitoriali: non fermarti a parlare con chi non conosci. Anche se è soltanto un ragazzo in villeggiatura? Temo di sì. Così mi sono appiccicata addosso l’etichetta “non sono all’altezza” e me la sono portata sui banchi di scuola al liceo e all’università.

Tutta un’altra storia quando ero alle elementari e alle medie, perché lì tutti mi ripetevano quanto ero brava! Al ginnasio il cambiamento. Il mondo era pieno di giovani donne e giovani uomini più in gamba di me. Più sicuri. Meglio vestiti. E che discorsi sapevano fare! Leggevano romanzi appena pubblicati, mentre io attingevo esclusivamente alle edizioni economiche che pure mi aprivano un mondo! Le compravo nell’ordine in cui uscivano. Per esempio Mondadori solo dopo un po’ iniziò a numerarli. Comprai “Il Cardinale”, il primo che mi capitò tra le mani, in edicola, e non aveva numero. L’editore stava ancora tastando il terreno. Invece giravano in classe edizioni in brossure, che sfogliavo, quasi carezzavo: contenevano pagine realistiche, audaci, ma sfogliando a caso non le beccavo. Come per “Il giardino dei Finzi Contini”, che pareva scritto apposta per le mie compagne e i miei compagni.

Stava crescendo in me un complesso di inferiorità – oggi si chiamerà diversamente, lo so – che minava il solido terreno su cui avevo camminato da sempre. Non ero la sola a sentirmi fuori luogo, ma altri non sembravano esserne turbati e tiravano avanti apparentemente senza danni. Io dovevo aumentare lo sforzo, l’impegno, per raggiungere obiettivi sufficienti a stare a galla. Non mi era di consolazione il fatto che altri abbandonassero.

Già mi ero arresa con gli studi di pianoforte, ma almeno in quel caso non era stata una scelta mia: ero stata spinta a seguire orme che non mi avrebbero portata da nessuna parte, stretta com’ero tra desideri ambiziosi dei miei, elogi degli insegnanti che forse volevano solo conservarsi un’allieva, incomprensione per certi esercizi che mi parevano noiosi e a volte fingevo di eseguire, eccesso di tecnica e scarso piacere nelle esecuzioni. Certo una volta che avevo imparato un brano ero lieta di farlo sentire, ma il “che brava!” veniva da voci incompetenti o compassionevoli. “Non ce la posso fare a studiare latino, greco, filosofia e tutto il resto, se due pomeriggi la settimana devo andare ad Acqui a lezione di piano!”: eccola lì la scusa, già bella e pronta. “Continuerò a studiare qualche pezzo per conto mio e poi, quando avrò finito il liceo, vedremo…”. Arrivarono gli spartiti dei valzer e tanghi celebri, perché a me piaceva ballare il liscio con mio padre. Avevo imparato con lui e c’era tra noi un affiatamento che non ritrovavo con altri in pista. Mi piaceva anche la voglia di ballare che ci contagiava quando eravamo a tavola, o comunque dediti ad altre attività, sentivamo le note di un pezzo che ci piaceva e...pronti via! ci alzavamo a ballare. Anche se non sono mai stata brava a ballare il liscio, e me ne accorsi quando le scuole di ballo iniziarono a sfornare coppie tecnicamente più preparate, con lui mi sentivo sicura e riuscii a portare sulla pista quella disinvoltura ancora per molti anni, anche senza mio padre. Mi sentivo leggera ed elegante in quel volteggiare fino allo sfinimento. Questa, se mai ce ne fosse bisogno, è la prova di come cresciamo in balìa di sentimenti e sensazioni contrastanti, talvolta motivati, talvolta del tutto immotivati: davvero marionette guidate dall’inconscio, a discapito della consapevolezza che viene meno se non ci fermiamo per riportarci esattamente là dove siamo. Ma nessuno ci ha insegnato quali rischi corriamo quando ci abbandoniamo ai ragionamenti, quando valutiamo, soppesiamo, scegliamo, privilegiamo, affondiamo pezzetti di noi… così quando il sistema si imballa non riusciamo a tirarcene fuori.























giovedì 13 gennaio 2022

FINE

 

 

Indice

The flow

La donna

Filastrocca

In camper

Sciamani

Lione

Colonne sonore

Movimento

Conversazione telefonica

Gozo

Quaderni

Al cinema

Neve

Donne e buoi

Dipingere

Ronda

Sotto la neve il pane”

Dublino

Nuovo ufficio

Contatti

Spannocchiare

Al chiosco

Ego

Fine settimana

Seminario

Specchio

Umiltà

Laghi

New York

Dipendenza

Progetti

Dubbi

Gloria

Partenza

Maturità

Pandemia

Il miglior amico

A servizio

Blocco totale

Rissa

Radici

 




 Da questo punto lavorerò sulle mie radici e sarà un cammino solitario.

Radici

 


     

     

    Radici







 

Mio nonno usciva tutte le sere – non lo diresti, vero, Camilla? dato che i tempi sono cambiati… - anche d’inverno, con la neve, dopo essersi avvolto nel suo pastrano nero, cappello in testa, mezzo toscano in bocca. Andava al Bar Roma, dove giocava a carte, a scopa: chi perdeva pagava i caffè. Comprava anche delle mentine al Fernet, amare il giusto, che teneva sempre in tasca.

Era contento di avere una nipotina per casa, anche se le femmine non gli erano di aiuto nel lavoro dei campi. Qualche volta io andavo davanti al bue durante l’aratura, così lui guidava l’aratro e lo spingeva giù con forza perché il solco risultasse profondo. Lo aiutavo a girare il fieno, a vendemmiare, ma era poca cosa. Mio fratello neanche questo, perché era delicato di salute.

La sua famiglia faceva Ricci di cognome, ma il soprannome era ‘qùi d’l bò’, ‘quelli del bue’, perché coloro che avevano il bue erano benestanti in un mondo contadino in cui era molto diffusa la mezzadria. Venivano chiamati ‘particular’, perché erano poche le famiglie che possedevano cascina, stalla, terre e vigneti. Certo gli appezzamenti di terra erano frammentati e si doveva camminare un bel pezzo – più di un’ora certamente – per raggiungere i vigneti, ma si era abituati ad andare a piedi.

A mio nonno poi non è mai mancato un paio di scarponi e contro il freddo indossava un corpetto di lana, mutande lunghe sotto i pantaloni, una camicia in flanella, fazzoletto al collo, gilet, giacca e a volte pure la sciarpa. Sempre lo stesso abbigliamento, solo si potevano distinguere gli abiti della feste da quelli di tutti i giorni. Quando ero piccola, mi chiamava ‘sparpaia’, che vuol dire farfalla, forse perché mi muovevo con leggerezza e in continuazione.

Parlava dialetto, ma sapeva leggere e scrivere, anche se non lo si vedeva mai con un giornale o un libro in mano. Quei pezzi di giornale che giravano per casa, finivano nel gabinetto che si trovava in cortile, agganciati ad un fil di ferro. Con rispetto invece erano trattati i pochi libri di cui ho memoria, tutti di stampo religioso o patriottico, spesso biografie di santi o di uomini straordinari.

























Rissa

 

 


Rissa

Scriva, per favore, su questo taccuino, tutto quello che può associare a ciascun titolo…” chiede Anna con gentilezza alla paziente.

Bastano poche parole che facciano da promemoria, poi mi racconterà a voce i particolari.”

Rissa - La prima persona che mi è venuta in mente è mia sorella, in particolare nella circostanza in cui, tra le altre cose, mi ha detto di non voler condividere con me la cappella mortuaria per tenere unita la sua famiglia. E poi quell’altra, posteriore di alcuni anni, in cui mi ha riversato addosso parole dure per un privilegio di cui ero certamente felice, ma che non avevo cercato. Era successo, semplicemente.”

Ancora qualcosa? Rissa, conflitto, scontro…”

Risse vere e proprie erano anche quelle che si svolgevano nei Consigli di Classe: è successo tanto a Casale quanto a Cassine, e alla fine non c’erano vinti e vincitori, ma certo qualcuno ne usciva in lacrime (che in realtà erano lo sfogo per la tensione accumulata, l’irritazione, il nervosismo che aleggiava ed era palpabile).

Rissa mi sembrò, quando ero piccola, la lotta che si svolse sotto i miei occhi increduli tra mio padre ed un suo amici, un certo Alfio. Fingevano di sopraffarsi a vicenda ed io ho temuto davvero che qualcuno potesse fargli male: era l’uomo della mia vita.

Rissa quotidiana si svolgeva tra i nostri cani Penny e Dean, due femmine che di solito giravano tranquille per il giardino, salvo poi aggredirsi: o meglio era Dean che mordeva Penny sul muso facendola acquattare per terra per sottometterla – credo – mentre la poveretta guaiva e mi faceva una pena terribile.

Forse si possono definire risse anche alcune sceneggiate che abbiamo messo su in famiglia: spesso Franco ed io, in tempi abbastanza recenti, parecchie volte i ragazzi ed io, in tempi più lontani, quando loro erano bambini non indifesi ed io l’aggressore.”

Mi ha detto di avere tre figli. Franco è suo marito, suppongo…”

Sì, con Franco alcune volte è finita con un: ‘Basta! Non possiamo più stare insieme. Ci distruggiamo a vicenda!’ salvo poi continuare come prima, facendo finta che quelle ultime parole non fossero mai state pronunciate.

Risse verbali, sì, ma dolorose almeno quanto quelle fisiche.

Persone rissose, invece, ne ho conosciute poche e in questo momento non ne ricordo proprio.

Mia sorella però… va tutto bene se non la si contraddice, se la si lascia parlare dei suoi amici (pochi, e tutte donne) e dei suoi nemici (tutti gli extracomunitari, le persone di colore, le donne che indossano i pantaloni stretti con i tacchi alti, che vanno in giro mostrando abbondanti porzioni del corpo, tutte le prostitute con i loro protettori, ma soprattutto con i loro clienti, buona parte del genere umano di sesso maschile, poi coloro che gridano, che sono volgari, che ‘si lavano poco’, che non puliscono casa tutti i giorni e via di seguito…) perché lei rispetta le differenze, purché non le capitino sotto gli occhi. Per il resto è ironica, simpatica, costruttiva… insomma ha le sue virtù. Le apprezzo, quelle poche volte in cui ci vediamo.”







  1. Una grande famiglia

Proprio stamattina, appena sveglia, ho ripensato al post su Facebook che mi hai mostrato e ho cercato di ricostruire l’albero genealogico della famiglia cui alludevi, molto numerosa ma ahimè oggi ridotta di parecchi membri da malattie che non hanno lasciato loro la gioia di veder crescere figli e nipoti. Ne ricordo la matriarca, già in età avanzata e vedova. Il patriarca lo vidi in fotografia, in atteggiamento da pescatore con preda, in Sardegna. Anche questa foto era stata postata.

Primogenito era un figlio maschio del quale non ricordo la moglie, quindi può essere che fosse vedovo o divorziato. Si prendeva cura del suo figlio maschio, ora sposato e padre di una bellissima bambina. Venivano poi due coppie di gemelle, in cui una sorella era bionda e l’altra mora. La prima bionda, sposata e madre di una ragazza, ha avuto il dispiacere di vederla morire di cancro ancor giovane, lasciando tre figlie, due delle quali gemelle. La mora della prima coppia, invece, generò due femmine, una bionda e una mora, ma in questo caso non so se fossero gemelle. Del marito non ho alcun ricordo, anche se ho capito col tempo che il coniuge acquisito non resisteva a lungo, perché, di fatto, si ritrovava sposato a ‘tutta la famiglia’, perciò spesso si dava alla fuga. Confesso che potrebbe essere una mia malignità.

Quanto alla seconda coppia di gemelle, la bionda si è sposata ed ha avuto una figlia. Più o meno era mia coetanea. Purtroppo però né lei né il marito hanno avuto il piacere di conoscere il nipotino. La gemella mora numero due ebbe un figlio maschio, oggi credo ancora felicemente sposato a Venezia, ma fu lasciata dal marito e ricordo che passò momenti difficili. Spero si sia ripresa.

In seconda generazione la ragazza bionda si occupa dei due bellissimi figli. E proprio pensando a lei sono andata in confusione perché questi giovani li ho visti crescere e, da adolescenti, diventare adulti, quando hanno avuto modo di diventarlo.

Oggi non c’è più l’unione che negli anni Novanta contraddistingueva questo nucleo familiare: la casa che li riuniva – specialmente d’estate – è stata venduta e tutti i cugini vivono la loro vita frequentando amici differenti. Forse qualche matrimonio, battesimo o – ahimè – funerale li vedrà ancora riunirsi, ma quell’intreccio di relazioni non sarà più così stretto.

Era proprio così: sposare un membro di quella famiglia comportava accettare di integrarsi e convivere, almeno per brevi periodi, con tutti quanti.”





 

Blocco totale

 


 Blocco totale

Che sollievo!” pensa Barbara quando riesce finalmente a prendere posto sull’aereo.

Luca sta scrivendo l’ultima mail. Si è preparato un po’ di materiale su cui lavorare durante le prime ore di volo. Poi dovranno cercare di dormire per qualche ora.

Sollievo perché ha avuto qualche timore di dover rinviare ulteriormente il viaggio di ritorno. Quante cose sono cambiate in una sola settimana! I voli verso l’Italia hanno subito una drastica riduzione ora che in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna si è diffusa l’epidemia. Si sono udite parole inimmaginabili fino a pochi giorni prima: chiusura di frontiere, quarantena, voli soppressi, blocchi… Come prima Barbara aveva provato un grande desiderio di partire, così ora non vede l’ora di essere a casa, anche se sa che dovrà limitare i suoi spostamenti e rimanere chiusa nel suo appartamento.

Le attività sportive hanno visto dapprima limitare le gare, poi bloccare gli allenamenti, ora si chiuderanno anche le palestre: non vede l’ora di parlarne con Davide.

Per fortuna è attrezzata per quello che ora chiamano smart working: fare incontri, videoconferenze, ricerche, ordini, pagamenti… tutto dallo studio di casa.

Finalmente l’aereo decolla: fino all’ultimo ha provato un vago timore che mai avrebbe pensato compatibile con la sua certezza di essere artefice della propria realtà. Sa bene infatti che nessun dubbio deve insinuarsi. Un saluto alla conurbazione che si estende a perdita d’occhio e poi via verso l’oceano e le lunghe ore da riempire: si concederà un film e poi cercherà di riposare.





 

A servizio

 

 


A servizio

Anche stasera Camilla dedica una mezz’ora alla nonna riflettendo che le piomberanno addosso notizie di anziani che non ce l’hanno fatta e immaginando il suo stato d’animo.

Cosa mi racconti stasera? Ci hai già pensato”

Voglio parlarti di un’usanza che oggi è lontanissima dalle aspettative di voi ragazze, tanto che non potreste neanche immaginare… Molte giovani donne della mia generazione imparavano fin da piccole a sbrigare le faccende domestiche e poi, poco più che adolescenti, venivano affidate a famiglie benestanti che avevano bisogno di una collaborazione in cucina o in casa. Le più fortunate rivestivano il ruolo di dame di compagnia, ma più spesso erano trattate come serve o apprendiste-serve perché non ricevevano neppure un salario decoroso. Già il fatto di avere una bocca in meno attorno al desco familiare era positivo. Poi venivano vestite di tutto punto perché i signori non volevano sfigurare nel loro ambiente e per di più potevano portare a casa qualche abito dismesso o un paio di scarpe per i fratellini.”

Nonna, hai conosciuto qualcuna di queste ragazze?”

Una è diventata mia amica ed è spesso uscita con noi, quando tua madre era piccola, perché un coetaneo del nonno le ha fatto il filo per un po’…”

Quindi aveva del tempo libero?”

Certo. La domenica pomeriggio la signora presso cui era a servizio la lasciava venire con noi. Ci conosceva bene perché eravamo in affitto in quello che oggi sarebbe un bilocale di sua proprietà.”

Tu e il nonno abitavate in un bilocale?”

Proprio così: cucina e camera da letto. Il bagno allora non c’era e il gabinetto, in comune con i vicini, era in fondo al terrazzo su cui si affacciavano tre alloggi, mi pare…”

Siete rimaste amiche per tanto tempo?”

Certamente! Poi ha sposato un nostro compaesano che faceva il panettiere, quindi un buon partito… Una volta – mi sembra per Pasquetta – siamo andati dai suoi al paese, che era imbriccato sull’Appennino: c’erano i suoi genitori e numerosi fratelli e sorelle.”

Quando si è sposata, chi ha preso il suo posto?”

Per un certo periodo la sorella minore, che tuttavia era meno graziosa e sveglia di lei.

Poi ricordo una parente acquisita che, ancora molto giovane, era stata mandata “a servire” – guarda che si diceva proprio così! – a casa di un medico, ma sentiva tanto la mancanza delle sorelle che quasi si ammalò. Per lei quell’esperienza fu un vero dramma, tanto che dovette ritornare a casa altrimenti la malattia sarebbe diventata seria, tanto era il disagio che provava.”

Anche alla generazione di mamma toccarono esperienze del genere?”

Qualche volta, ma i tempi sono cambiati rapidamente dopo la guerra… Vicino a noi è vissuta per qualche tempo una ricca signora cui il marito comprò e arredò una villetta in campagna, che, guarda caso, fu proprio quella che tuo nonno aveva voluto per noi, salvo poi cambiare idea e pretendere di venderla per farne un’altra…”

Così questa signora ti sarà risultata davvero antopatica!”

Non tanto perché, sebbene fosse davvero benestante e fosse vissuta in città tra tutti gli agi, aveva perso entrambi i figli in incidenti in montagna, perciò provavo molta compassione per la sua solitudine. Aveva una dama di compagnia che si occupava anche di tutti i lavori di casa, e in più ebbero una collaboratrice qui del paese, poco più vecchia della tua mamma: l’aiuto dell’aiuto, insomma…

Oggi le ragazze come te si vergognerebbero se fossero spinte dalla famiglia a fare lavoretti come questo nel tempo libero dalla scuola, invece per la passata generazione era ancora considerata come un’opportunità di ampliare le proprie esperienze e conoscenze.”

Uno stage, insomma…”

Di cosa stai parlando? Uno… che?”

Stage, nonna! E’ un lavoro non retribuito o poco retribuito, che permette ad uno studente di fare un po’ di pratica. Purtroppo non sempre persegue scopi o raggiunge risultati utili per ambo le parti.

Ora devo lasciarti, nonna! Grazie per la chiacchierata. Buonanotte!”

Buonanotte a te e grazie per la videochiamata: mi fa tanto piacere vederti, oltre che sentirti!”



 

Il miglior amico

   



 

 


“Sembra impossibile che la morte di un cane lasci un vuoto così grande nel cuore del suo padrone, tanto che questi si sente incompleto. Ma è più facile comprenderlo quando è la morte del padrone a suscitare nel cane, che gli è legato da fedeltà, oltre che da un amore smisurato, un comportamento di paziente attesa, veglia, tenera ricerca e ostinato legame: tu sei l’unico essere vivente cui mi sono legato e ora che non sei qui come (tutti) gli altri giorni, ti aspetto perché mi manchi, conto sulla tua fedeltà e sento che ci sei.

Accettiamo che il cane senta la presenza del padrone – o meglio del suo migliore amico – anche se non è fisica. Ci sta bene che ne avverta l’arrivo quando ancora non è in vista e non si può sentire alcun rumore. Siamo disposti ad ammettere che ne percepisca le vibrazioni e le onde quando si muove, ma anche quando sta fermo e cambia semplicemente umore. Certo che capisce quello che gli dico! Ma, andando oltre, capisce anche se sto bene, se sto male, se sono triste, se sono felice, solamente alzando il muso verso di me. Il suo sguardo è centrato, sta su di me penetrante, riflessivo, paziente e, sì, è lui il “padrone” della situazione. Io, uomo, nella mia superficialità che emerge nonostante gli sforzi di consapevolezza, disattento perché preso da impegni che non sono tali, che mi distraggono semplicemente dal mio essere centrato – che poi è quanto perseguo o vorrei perseguire da una vita! – quando “torno in me” chiedo scusa mentalmente e cerco di farmi perdonare con una coccola in più, ma lui sa e scodinzola, prima ancora che allunghi la mano o mi muova verso di lui. Sa, perché sente, è presente, veglia su di me con quel suo sguardo che, anche quando pare addormentato, non mi perde un attimo, quasi fosse un radar.

Sa perfettamente qual è il suo ruolo, e il suo posto; non conosce il disagio, la vergogna, il rancore, l’insofferenza… E conosce il dolore: lo si vede nella profondità di quegli occhi buoni; del dolore accetta che abbia un senso, per questo si

allontana, si isola quando lo avverte, è disposto a coinvolgermi solo se sono io a volerlo. Conosce la pazienza e la tenerezza, specie nei confronti dei cuccioli – di tutti i cuccioli – perché ne condivide la capacità di affidarsi, di sognare, di giocare.

Perché il cane è sempre pronto a giocare col suo padrone e non viceversa. Quando perdiamo la voglia di giocare? Forse quando ci dimentichiamo che è mille volte meglio giocare col nostro cane, in spiaggia, sul prato, sul tappeto, piuttosto che chattare, fotografare, pianificare, compiere insomma atti poco sensati, ma dettati dalla moda. Perché qualcosa di giocoso, magari senza senso come saltare o fare una corsa improvvisa o tirare una palla, un sassolino, un bastone, ci fa sentire fuori luogo? O fuori ruolo? Ci siamo dimenticati che il nostro unico compito è essere felici qui – in questo preciso luogo – ed ora – in questo preciso momento -? Forse ce ne siamo dimenticati, ma lui lo sa ed è qui per ricordarcelo. Anche se non c’è più.”

Anna ha appena riletto la mail che ha scritto di getto non appena ha saputo che Emma, la donna dell’incidente, ha perduto il suo migliore amico, nonostante la lunga e difficile operazione cui ha voluto sottoporlo – estremo tentativo – e che purtroppo non è servita a salvargli la vita. E’ successo proprio il giorno di Sant’Antonio, protettore degli animali.

La invia anche se si rende conto che non sarà di alcun conforto leggere parole buttate giù di getto, quasi in risposta all’annuncio doloroso che ha avuto modo di leggere su Facebook. Non è mai stata brava a manifestare il proprio dolore o a stare vicina alla persona che ha subito una perdita. Si rende conto che questo disagio cozza con la sua professione e ne soffre, tuttavia è solita chiudersi in un riserbo che si augura possa essere scambiato per rispetto del dolore. Ricorda di avere imparato, sui banchi di scuola, che molti popoli, in diverse epoche, usavano esprimere il dolore con lamenti altisonanti, gemiti, espressioni colorite e rumorose. C’erano donne pagate appositamente per guidare, durante le cerimonie funebri, il coro delle lamentanti, non sempre addolorate, più spesso volte ad esprimere un’usanza ed un costume rituale. Quando poi le era capitato di assistere, anche indirettamente, alla recita del rosario e delle litanie accompagnate da lamenti, il disagio si era trasformato in disappunto e aveva detestato questa usanza. Addirittura, oltre a non offrire il proprio sostegno, in linea di massima evita di partecipare persino alle cerimonie funebri: non riesce a trattenere le lacrime e non si avvicina ai congiunti per porgere le condoglianze, perciò preferisce rinunciare.

In passato, invece, il suo rapporto con la morte era stato più naturale, perciò considerava le cerimonie funebri come un saluto al defunto che veniva accompagnato alla sua ultima dimora da tutti gli amici e conscenti. Per fortuna la

cremazione, che fino a qualche decennio prima veniva rifiutata in nome della presunta resurrezione della carne, ora era una pratica sempre più diffusa ed Anna sognava che un giorno ciascuno avrebbe potuto decidere se le proprie ceneri dovessero tornare alla terra, all’acqua, insomma alla Natura. Quegli enormi cimiteri cittadini, che obbligavano all’acquisto di un loculo per una manciata di anni, le erano sembrati, da sempre, un’ulteriore forma di speculazione, in cui i ricchi potevano ancora ostentare il loro potere. E le tombe abbandonate, anche solo per l’estinzione di un ramo dell’albero genealogico, le mettevano davvero tristezza con i fiori di plastica stinti, le ragnatele e i calcinacci che si staccavano dall’intonaco.

La morte ci rende tutti uguali, “falcia tutte le erbe del prato” – aveva sentito recitare in passato – ma… quando mai? in un mondo dove un defunto può essere occultato per continuare a riscuoterne la pensione? Che fine hanno fatto il culto degli antenati, il rispetto per gli spiriti degli avi, la devozione nei confronti di chi è vissuto in odore di santità?

Queste le riflessioni di Anna mentre viaggia in treno da Lione a Torino. Certo che non è giornata! E’ pomeriggio, ma il cielo appare scuro per le nuvole, caratteristiche di un’area ciclonica che sembra accompagnarla, grigio e cupo. Non vede l’ora di cambiare convoglio e di avvicinarsi alla casa piena di colori che l’attende.