“Sotto la neve il pane”
“Io credo nell’importanza della Memoria. Sapere da dove veniamo aiuta a capire chi siamo e cosa possiamo diventare; in bene o in male, a nostra scelta.” (4)
“Sai, Camilla, ho letto un libro che mi ha catapultata indietro nel tempo, fino agli anni in cui ero piccolissima. Vivevamo nella cascina di cui ti ho parlato, quella con il cancello grande che si apriva sulla strada per Castelnuovo e con il cancellino, come lo chiamavo io, che permetteva di entrare nel cortile degli zii senza fare tutto il giro. Era una casa su tre piani, ma solo il pianterreno era interamente occupato dall’abitazione, sopra c’era solo la camera da letto, dalla parte della cucina, e ancora più su, al secondo piano, la camera degli ospiti, quasi sempre vuota e fredda. Attraverso una scala fatta di traversine di legno, senza scalini, si accedeva al sottotetto, che tuttavia era completamente sgombro. Sul lato opposto si apriva una grande cascina, anch’essa vuota, con tanto di persiane verdi, cosicché, guardando la facciata, sembrava tutta quanta abitata. La porta d’ingresso, con la scala ripida subito di fronte – allora si trattava di un progetto standard! – dava accesso alla cucina sulla destra e alla sala sulla sinistra. Il sottoscala poi fungeva da ripostiglio e nascondeva il lavello, come il cucinino degli anni Cinquanta. L’ultima stanza a pianterreno, cui si accedeva solo dall’esterno, almeno in origine era un laboratorio di falegnameria con tanto di banco di lavoro al centro e numerosi attrezzi, tra cui pialle di tutte le misure, tutt’attorno. Non perché il padrone di casa fosse un falegname, semplicemente aveva come hobby la lavorazione del legno, oltre alla pesca, all’orticoltura e tanto altro. Dietro la casa, coperto da un tetto spiovente, si apriva un ampio portico in cui, ricordo, c’erano gabbie di conigli. Alcuni scalini permettevano di scendere in cantina. Naturalmente vi si accedeva anche direttamente dal sottoscala, perché la cantina, a quei tempi, era fondamentale per la conservazione degli alimenti: salami, marmellate, zucche, salse… facevano bella mostra di sé sugli scaffali. Nella botte, nelle damigiane, nelle bottiglie ricoperte da un velo di polvere e muffa, il vino. Questo era, allora, il frigorifero, che nel giro di pochi anni è stato soppiantato dal ben noto elettrodomestico. Ma c’era anche, nel pozzo davanti casa, una carrucola che permetteva di far scendere al fresco una gabbietta in legno e rete fine, tutta colorata di verde, in cui si teneva al fresco il burro e non ricordo cos’altro.
Come in tutte le case di campagna, c’erano le galline col loro bravo pollaio, ma non giravano libere per il cortile sporcando tutto, erano rinchiuse a lato della casa e avevano il loro spazio bello ampio. Anche qui c’era il cancellino per entrare a dar loro da mangiare e per raccogliere le uova. Almeno le uova si trovavano subito e non succedeva che le galline le covassero di nascosto tra le balle di paglia, costringendo poi la padrona di casa a buttarle, come succedeva talvolta nei cortili dove potevano razzolare liberamente.
Ancora vicino al pozzo c’era un abbeveratoio – ‘àlbi’, lo chiamavano – a pianta quadrata (di solito erano a pianta rettangolare perché destinati agli animali, che quindi potevano avvicinarsi più numerosi) perfetto per fare il bucato, lavare le verdure, ma anche per tenervi i pesci pescati nel fiume, affinché, vivendo per qualche giorno in acqua limpida, perdessero quel vago sapore di melma. Del resto in quella casa non li mangiavano.
Ero piccola e mi ponevo mille domande: certe abitudini davvero non le capivo e mi sembravano parecchio strane.
Inoltre c’erano, negli armadi a muro, dei ‘tesori’ cui non avevo accesso. Per esempio avevo sbirciato, mentre i grandi se lo passavano, un album di pelle, verde scuro, con tante fotografie ben sistemate in angolini attaccati con pazienza. Una foto era staccata e aveva il formato di una cartolina: conteneva i saluti di Giuseppe alla ‘Signora madre’. Naturalmente le dava del voi, la rassicurava sulle sue buone condizioni di salute e lo mostrava in primo piano, sulla spiaggia a Savona, mentre sullo sfondo comparivano diverse ragazze e signorine in costume da bagno oppure in abitino estivo. Per la verità non c’era molta differenza tra questi capi di abbigliamento perché entrambi coprivano tutto il corpo e lasciavano intravedere soltanto le braccia e una piccola porzione di gambe. Tuttavia i modelli erano vari e civettuoli. Il nostro protagonista risultava essere un giovane di bell’aspetto, dai capelli chiari, le spalle larghe, il fisico asciutto, ed indossava pantaloncini al ginocchio e una camicia estiva.
A Savona aveva conosciuto Rita, occhi scuri e capelli neri, che era fotografata un paio di volte in un locale, quello che oggi sarebbe etichettato come ‘Vineria’ per la presenza di botti, tavolini, sedie, avventori. Lei era molto bella ed elegante. Chissà quanti, tra i frequentatori del locale, le avranno fatto la corte! Eppure ha scelto di maritarsi a questo ferroviere che, in seguito ad un prepensionamento determinato da circostanze che io non ho mai compreso, se ne è tornato al paese natale, ha costruito casa – correva l’anno 1931 – sul terreno che apparteneva al patriarca, quindi accanto al fratello primogenito, e l’ha portata a vivere in campagna, dove presumibilmente non aveva conoscenze.
Inoltre Rita dovette lasciare la sorella Luigina, cui era molto legata, a sua volta maritatasi e trasferitasi a Ventimiglia. Sarà mai stata felice? Sai, Camilla, ne ho sempre dubitato.”
(4)
Vanessa Navicelli, Il pane sotto la neve, Saga della serenella, 2018
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